Va a vuoto la risposta dell’Iran alle mazzate d’Israele sugli Hezbollah: al calare della notte di martedì 1 ottobre, il regime di Teheran lancia almeno 180 missili balistici contro Israele, dopo che, nel giro di due giorni, gli israeliani hanno ucciso il capo degli Hezbollah Hassan Nasrallah, hanno decimato i capi del ‘partito di Dio’, hanno martellato le postazioni dei miliziani fin dentro Beirut, facendo centinaia di vittime, forse 800; e sono entrati con forze di terra nel sud del Libano, costringendo centinaia di migliaia di persone ad abbandonare le proprie case.
Tutto questo mentre le forze di interposizione dell’Onu, l’Unifil, circa 10 mila militari, di cui oltre mille italiani, se ne stanno rintanate nei rifugi: al riparo, ma totalmente inutili. Al punto che ci si chiede – non da oggi – che cosa stiano lì a fare. Dal 1978, da quando la missione è stata creata, non ha mai impedito uno scontro tra israeliani e miliziani sciiti filo-iraniani. Ora, nessuno vuole mettere a rischio la vita dei caschi blu, men che meno degli italiani: ma se è per osservare, tanto vale farlo con i satelliti, costa meno ed è altrettanto, se non più efficace.
Come prova il fatto che il lancio dei missili iraniani è stato intercettato prima ancora di avvenire: dagli Stati Uniti, l’allarme era partito con qualche anticipo, non molto dopo l’inizio delle operazioni di terra israeliane in Libano. Le sirene d’allarme hanno suonato in tutto il Paese: alla gente è stato detto di raggiungere i rifugi e di rimanervi, mentre il cielo si riempiva dei traccianti dei missili anti-missile.
Iran – Israele: la successione degli avvenimenti
Visti partire e seguiti nel loro tracciato, gli ordigni iraniani sono stati intercettati nella quasi totalità dai sistemi di difesa anti-aerea israeliani, con l’aiuto di quelli statunitensi e britannici (Washington e Londra hanno condiviso la soddisfazione per il successo dell’operazione). Il massiccio (sulla carta) attacco iraniano ha fatto un morto – ironia della sorte, un palestinese – e pochi feriti, qualche danno a edifici e installazioni causaoi da brandelli di missili caduti.
L’azione è scattata – informano i Pasdaran, i Guardiani della Rivoluzione iraniana – per rispondere “al martirio” di Ismail Haniyeh, il capo di Hamas ammazzato a Teheran a fine luglio, di Nasrallah e di altri capi delle milizie filo-iraniane. “Abbiamo colpito il cuore delle terre occupate”, aggiungono i Pasdaran, pur sapendo che l’operazione è stata un flop. Nelle stesse ore, si verificano due attentati: uno in un centro commerciale di Tel Aviv, l’altro a una stazione della metropolitana di Giaffa – qui, muoiono otto persone, secondo fonti della polizia -.
L’impressione è che, come già avvenne in primavera, la reazione iraniana, attesa dall’eliminazione di Haniyeh, sia stata condotta più per ragioni d’immagine sul fronte interno che con la convinzione di fare davvero male a Israele: depotenziata in partenza da scambi di informazione fra intelligence o, comunque, dai buchi di un’intelligence che fa acqua in Paesi come il Libano, e anche l’Iran, dove c’è chi piange la morte di Nasrallah e chi la festeggia.
Adesso, però, bisogna vedere se e come Israele reagirà a sua volta. Ad aprile, il premier israeliano Benjamin Netanyahu e la guida suprema iraniana Ali Khamenei si limitarono, sostanzialmente, di ‘fare ammoina’, fermandosi sull’orlo del precipizio d’una guerra regionale. Ma, rispetto ad aprile, l’Iran e soprattutto i suoi accoliti sono indeboliti; e Netanyahu è galvanizzato dai suoi successi, mentre il suo Paese sta entrando nel cono di lutto del primo anniversario delle azioni terroristiche del 7 ottobre – 1200 le vittime, oltre 250 gli ostaggi catturati, un centinaio dei quali non sono stati ancora restituiti alle famiglie, vivi o morti -.
Per di più, quando è Israele a subire un attacco, com’è avvenuto martedì sera, i Paesi occidentali ritrovano immediatamente compattezza nel sostenerne il diritto alla difesa e la sicurezza: Washington, Londra, Parigi, Berlino e Roma accantonano le riserve timidamente manifestate davanti allo squilibrio tra l’offesa del 7 ottobre e la reazione – oltre 41 mila palestinesi uccisi solo nella Striscia di Gaza, in maggioranza anziani, donne e bambini, senza contare le vittime collaterali in CisGiordania e Libano -.
Israele – Iran: i timori di allargamento del conflitto
Il timore di un allargamento del conflitto, dunque, persiste, dopo che i drammatici avvenimenti delle ultime due settimane, dalla strage dei teledrin in poi, hanno comunque aperto un nuovo fronte, a nord di Israele, al confine con il Libano e dentro il Libano. E, se si tratta di colpire e indebolire Hezbollah e le altre milizie filo-iraniane nell’area, Israele può contare sul sostegno degli Usa, che le considerano tutte organizzazioni terroristiche.
A Teheran, il quartier generale delle forze armate iraniane fa la voce grossa: “Colpiremo i Paesi che intervengano direttamente o che si lascino coinvolgere in qualsiasi possibile aggressione di Israeele all’Iran. Attaccheremo simultaneamente le loro installazioni e i loro interessi nella Regione”. Ma, rispetto alla fine dell’estate, l’affermazione oggi appare più velleitaria.
Certo, Netanyahu non ignora il rischio di imbarcarsi in una guerra in Libano lunga e sanguinosa e dalle conseguenze, oltre che dall’esito, imprevedibili. L’invasione del 1982, che si tradusse in una prolungata occupazione, iniziò con una missione per allontanare i miliziani dal confine, proprio come ora; e l’offensiva in profondità del 2006 si concluse senza vincitori né vinti.
Questa volta, però Israele ha praticamente decapitalo il nemico prima di affrontarlo sul terreno. Ma continua a presentare le operazioni di terra come limitate e di breve durata, mentre l’esercito chiede di evacuare ai residenti del quartiere di Beirut dove si trovava il quartier generale di Hezbollah e dove è stato ucciso Nasrallah, così che raid aerei e attacchi missilisti abbiano campo libero.
A suggerire cautela, c’è pure il fatto che gli altri fronti di conflitto restano aperti: la Striscia di Gaza e la CisGiordania restano in ebollizione. Nella notte tra martedì e mercoledì, raid aerei israeliani hanno fatto 32 vittime a Sud di Gaza. Lo Europea Hospital di Khan Younis ha contato i morti e sta assistendo decine di feriti, dopo attacchi aerei ed azioni sul terreno in città.
La stampa Usa scrive che “Israele martella l’asse della resistenza iraniano”, proprio mentre “l’influenza degli Stati Uniti nella Regione s’è affievolita”, complici le elezioni del 5 novembre: c’è un presidente, Joe Biden, il cui mandato agli sgoccioli e il cui rapporto con Netanyahu è usurato; e ci sono due candidati che portano avanti linee diverse in Medio Oriente, ferma restando l’attenzione alla sicurezza di Israele.
Per l’uccisione di Nasrallah, democratici e repubblicani negli Stati Uniti non hanno versato lacrime: “Una forma di giustizia”, l’hanno giudicata, pensando alle vittime pure americane degli Hezbollah. E, prima del via alle operazioni di terra israeliane in Libano, lo speaker della Camera Mike Johnson ha chiesto all’Amministrazione Biden di cessare “le controproducenti richieste di cessate-il-fuoco e la campagna di pressione diplomatica contro Israele”.
Martedì sera, il dibattito in tv fra i candidati vice-presidenti Tim Walz, democratico, e JD Vance, repubblicano, è partito dalle guerre, anzi da ciò che stava accadendo in Medio Oriente, dove i missili iraniani erano stati appena intercettati. Né Walz né Vance hanno risposto in modo diretto alla domanda se avallerebbero un attacco preventivo di Israele all’Iran, ma Vance ha evocato l’idea di “pace attraverso la forza” e ha attribuito alla “paura suscitata da tale forza” il fatto che Trump non abbia dovuto gestire conflitti nel suo mandato.