Guerre, punto – E’ stato il premier israeliano Benjamin Netanyahu il primo leader internazionale a tastare il posto dei nuovi protagonisti della campagna elettorale di Usa 2024, dopo l’uscita di scena del presidente Joe Biden, che s’è ritirato dalla corsa alla Casa Bianca.
In visita a Washington, mentre le trattative per una tregua nella Striscia di Gaza e la liberazione degli ostaggi tuttora trattenuti sono in stallo, Netanyahu ha un‘agenda fitta di eventi e incontri: oggi, il discorso al Congresso in sessione plenaria e domani i colloqui con Biden, rientrato martedì alla Casa Bianca dopo una settimana di isolamento nella casa al mare in Delaware causa Covid, la sua vice – ora candidata democratica alla presidenza – Kamala Harris e il candidato repubblicano ed ex presidente Donald Trump.
Nei tre incontri, climi diversi. L’atmosfera per Netanyahu a Washington è pesante. A dirla lunga, basta un titolo del Washington Post: “Mentre il premier parla al Congresso, l’agonia di Gaza continua”. Sit-in di protesta sul Campidoglio si concludono con un’ondata di arresti (nella Rotunda del Congresso, dominata dall’apoteosi di Washington del Brumidi, è vietato manifestare); e decine di deputati e senatori hanno già annunciato che lasceranno vuoti i loro scranni, durante il discorso.
A testimoniare la precarietà delle relazioni tra Usa e Israele in questo periodo, neppure Harris, che è presidente del Senato, sarà presente all’intervento di Netanyahu invitato a parlare dai repubblicani. Le tensioni tra l’Amministrazione Biden e il governo israeliano sono andate crescendo in parallelo alla frustrazione a Washington per il modo in cui Israele combatte la guerra nella Striscia di Gaza, senza adeguato rispetto per la vita dei civili palestinesi.
Il conflitto è stato innescato dagli attacchi terroristici condotti da Hamas e da altri gruppi palestinesi in territorio israeliano il 7 ottobre: circa 1200 le vittime e centinaia gli ostaggi catturati, un centinaio dei quali non sono ancora stati restituiti alle loro famiglie – e di molti si ignora la sorte -. La guerra, che va avanti da quasi 300 giorni, ha poi fatto, secondo il Ministero della Sanità palestinese, oltre 39 mila morti, soprattutto civili, donne e bambini, e oltre 90 mila feriti. Più d’un abitante di Gaza su 20 è stato ucciso o feriti, quasi tutti sono stati costretti a evacuare le loro case.
Le tensioni in Medio Oriente non sono l’unica minaccia alla sicurezza internazionale. L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia grava sull’orizzonte europeo: un monito impressionante arriva dal capo di Stato Maggiore della Difesa britannico, generale Roland Walker, per cui bisogna essere “pronti” entro tre anni a un’ipotesi di guerra con la Russia, prospettiva “non inesorabile” ma neppure da escludere, e a un “asse dello sconvolgimento” globale che inclusa Cina, Corea del Nord e Iran.
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In discorsi e interviste negli Stati Uniti, il premier Netanyahu sostiene che, grazie alla guerra, stanno maturando le condizioni perché gli ostaggi siano liberati. Sul terreno, Israele coglie ogni occasione per rilanciare la tensione e mettere in stallo i negoziati: nella Striscia, combattimenti ed evacuazioni restano all’ordine del giorno; al confine con il Libano, i rischi di scontro con Hezbollah persistono; e, nell’ultima settimana, jet israeliani hanno colpito obiettivi degli Huthi nello Yemen, facendo danni ingenti e diverse vittime, per vendicare un drone degli Huthi su Tel Aviv – un morto -.
Le fiamme che si levano dal porto di Hodeida “erano visibili in tutto il Medio Oriente”, afferma orgogliosamente il ministro della Difesa israeliano Yoav Galant. Gli ordigni israeliani colpiscono un deposito di petrolio e una centrale elettrica.
Scelte israeliane e tentennamenti statunitensi lasciano spazio alle diplomazie alternative. A Pechino, 14 diverse fazioni palestinesi, fra cui Fatah e Hamas, con la mediazione del ministro degli Esteri cinese Wan Yi, raggiungono un’intesa per fare un “governo di riconciliazione nazionale ad interim” a Gaza, dopo la guerra. La ‘Dichiarazione di Pechino’, firmata da fazioni in lite da decenni, testimonia l’influenza acquisita dalla Cina in Medio Oriente.
Il crescente isolamento internazionale di Israele è testimoniato anche dalla sentenza con cui la Corte di Giustizia dell’Onu dell’Aja afferma che la presenza di Israele in CisGiordania è illegale e deve cessare: gli insediamenti esistenti vanno smantellati, non se ne devono allestire di nuovi e coloro che hanno perso le loro proprietà dal 1967 vanno indennizzati.
L’opinione della Corte non è vincolante, né vi sono strumenti per attuarla, e resterà lettera morta. Ma è la prima volta che l’illegalità degli insediamenti dal punto di vista del diritto internazionale viene chiaramente affermata e ciò potrà avere implicazioni politiche, giuridiche e diplomatiche.
Sul fronte degli aiuti umanitari, è stato smantellato il molo provvisorio allestito dalle forze armate degli Stati Uniti per facilitare l’arrivo a Gaza di viveri e medicinali e altri beni di prima necessità: l’iniziativa, voluta dal presidente Biden, ha consentito la consegna di 10 mila tonnellate di materiale in venti giorni, ma non ha avuto l’effetto sperato, ha destato ostilità e trovato ostacoli meteorologici ed è costata 230 milioni di dollari.
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Dal fronte ucraino, invece, quasi non arrivano notizie, a parte lo stillicidio notturno di missili e droni: la spinta dei russi verso Kharkiv pare essersi alleggerita, nonostante conquiste territoriali tutto intorno. L’attivismo diplomatico del presidente ucraino Volodymyr Zelensky gli fa chiamare Donald Trump, per esprimergli solidarietà dopo il fallito attentato del 13 luglio, e lo porta a Londra, dove partecipa a un meeting del governo Starmer – la prima volta per un leader straniero dai tempi del presidente Usa Bill Clinton, Anni Novanta -.
Zelensky rinnova l’appello già rivolto al Vertice Nato: rimuovere le limitazioni all’uso delle armi che sono state date all’Ucraina, lasciando che le forze armate di Kiev colpiscano obiettivi in Russia – invito raccolto in parte dagli Stati Uniti, solo per le armi a corto raggio -. Secondo Zelensky, eliminare le restrizioni sull’uso delle armi occidentali sarebbe fondamentale per l’esito della guerra.
Mosca, in questi giorni, pare combattere con l’Occidente soprattutto nelle aule dei tribunali. Dopo un processo segreto, una corte russa ha condannato a sei anni e mezzo Alsu Kurmasheva, giornalista russo-americana di Radio Free Europe / Radio Liberty, un’emittente finanziata dall’Amministrazione statunitense. L’accusa è di avere diffuso false informazioni sulle forze armate russe.
La condanna di Kurmasheva segue di qualche giorno quella del giornalista del Wall Street Journal Evan Gershkovich, che dovrà scontare 16 anni per spionaggio – un’accusa fermamente contestata dal reporter e dal giornale -. Gershkovich venne arrestato nel marzo 2023, a Ekaterinburg, dove faceva un reportage. Le condanne potrebbero preludere a scambi con detenuti in Occidente d’interesse russo.