Preceduto di un giorno dall’inizio della tregua nella Striscia di Gaza, che è fragile e che Israele compromette aprendo un fronte di guerra in CisGiordania, il secondo mandato di Donald Trump alla Casa Bianca parte con una raffica di provvedimenti intesi a ridisegnare le istituzioni statunitensi e i rapporti con avversari e alleati: l’intimidazione come strumento di governo e di negoziato.
L’America di Trump che vuole diventare di nuovo grande è un gambero che corre all’indietro, verso un’età dell’oro che non c’è mai stata, e si rimangia politiche di genere e ambientali, cancella diritti e programmi sociali, mette in dubbio alleanze e amicizie, rinnega il proprio passato di Paese di migranti che attira e accoglie chi vuole vivere il sogno americano.
“Un dannato modo per cominciare i prossimi quattro anni”, titola la Cnn. Il New York Times èp ironico: “Promettendo la Luna, cioè Marte”, l’obiettivo d’una corsa allo spazio rilanciata.
Donald Trump torna alla Casa Bianca rafforzato dal voto popolare, incattivito dalle traversie cui è (talora ingiustamente) scampato – due impeachments, una raffica di rinvii a giudizio e un paio d’attentati – e determinato, forte del controllo di tutti i poteri dello Stato, a rimodellare a suo gusto gli Stati Uniti.
Appena insediato, il presidente ha firmato una raffica di ordine esecutivi, una sorta di decreti legge: paletti all’immigrazione, via alle deportazioni, sospeso lo Ius soli, revocate norme per l’ambiente, avanti con le trivellazioni a tutto fossile. E poi, fin da subito o a seguire, meno tasse e più dazi – quelli verso Canada e Messico dal 1° febbraio -; il ritiro degli Usa dagli accordi sul clima di Parigi e dall’Oms; provvedimenti contro la criminalità; la grazia a praticamente tutti i ribelli del 6 gennaio perseguiti, circa 1.600, anche a quelli responsabili di crimini violenti contro le forze dell’ordine; 75 giorni di proroga a TikTok perché trovi un acquirente per le sue attività negli Stati Uniti, pena l’oscuramento.
Ma c’è molto di più. E negli uffici federali sono già cominciate le epurazioni: congedati i dipendenti che si occupavano di diritti di genere e disuguaglianze – continuano a essere retribuiti, in attesa d’essere riassegnati o licenziati -; rimossi e ‘degradati’ quelli ritenuti ostili. Molte delle misure, alcune delle quali probabilmente incostituzionali – la sospensione dello ius soli, ad esempio –, sono destinate a essere contestate nei tribunali d’ogni ordine e grado: 18 Stati e numerose organizzazioni non governative hanno già fatto ricorso per lo ius soli.
Trump 2: Europa e Mondo, insediamento accompagnato da promesse e minacce
Sotto la Rotunda, la cupola del Congresso affrescata nell’Ottocento da Costantino Brumidi, pittore romano esule, un immigrato, il popolo del magnate applaude ogni frase del suo idolo ed accoglie con standing ovations i passaggi dove dice che Dio lo ha salvato dall’attentato del 13 luglio perché lui potesse fare di nuovo grande l’America, che il declino “è finito”, dopo i “terribili tradimenti” dell’Amministrazione Biden, che non ci sarà altro genere che uomo e donna; e che, in un rigurgito d’imperialismo più che planetario, “ci riprenderemo il Canale di Panama” e “pianteremo la bandiera su Marte” – Elon Musk, qui, mostra tutto il suo entusiasmo -.
Come nel 2017, Donald Trump ha giurato sulla Bibbia di Lincoln e su una datagli da sua madre, nelle mani del presidente della Corte Suprema John G. Roberts, con accanto la moglie Melania – l’unica, nell’audience, con un cappello a tesa larga – e s’è così insediato al potere: 47° presidente degli Stati Uniti, mai nessuno eletto così anziano, a 78 anni compiuti.
Trump torna dunque alla guida del Paese più potente al Mondo e s’impegna a rispettare il credo dell’America First, mettere l’America al primo posto nelle proprie scelte. Ad applaudire, un po’ defilata, come il presidente argentino Javier Milei, c’è anche la premier italiana Giorgia Meloni, unico capo di governo europeo presente: il discorso, dove non c’è posto per la parola Europa, annuncia tempi grami per vecchi alleati poco funzionali ai disegni di grandezza trumpiani.
Alle parole di Trump, nessuno fa eco da Bruxelles per quasi 24 ore: un silenzio assordante, rotto quando – martedì – la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen parla al Forum di Davos. L’impaccio europeo rende più delicata la posizione di Meloni che deve decidere se usare il suo evidente rapporto privilegiato con Trump – due incontri in pochi giorni, un invito esclusivo, l’ok allo scambio con Teheran per la liberazione di Cecilia Sala – per ottenere vantaggi per l’Italia, in un rapporto di vassallaggio, o per cercare di costruire un ponte con l’Unione europea.
E mentre il presidente ucraino Volodymyr Zelensky fa appello all’Ue, sentendo venire meno l’appoggio degli Usa, i presidenti cinese Xi Jinping e russo Vladimir Putin si consultano sull’atteggiamento da tenere, dopo che Xi aveva parlato con Trump nel fine settimana.
Trump 2: un pregiudicato alla Casa Bianca

Donald Trump è il primo pregiudicato a diventare presidente degli Stati Uniti. Ad ascoltarlo, all’insediamento, c’erano tutti e quattro i presidenti Usa viventi, Bill Clinton, George W. Bush, Barack Obama e Joe Biden, e le loro first ladies – unica assente, Michelle Obama -.
Rispetto a quattro anni or sono, il passaggio delle consegne avviene, grazie a Biden, nel rispetto della grammatica istituzionale: corona d’alloro sulla tomba del Milite Ignoto, funzione religiosa nella Chiesa di St. John, visita di cortesia alla Casa Bianca, dove i Biden accolgono i Trump.
Nel 2021, invece, Trump aveva lasciato la Casa Bianca senza attendere l’arrivo di Biden e senza partecipare alla cerimonia d’insediamento del suo successore, fuggendo come un ladro (e portando con sé il bottino: centinaia di documenti riservati che andavano trasmessi agli Archivi Nazionali).
Trump parla una ventina di minuti, poco di più dei 16 del 2017. E rispetto ad allora dice meno volte ‘io’ e più volte ‘noi’, evoca “il nostro dio”, denuncia l’Amministrazione Biden come estremista e corrotta. I presidenti presenti, pure il repubblicano Bush, non applaudono mai: si alzano per farlo solo quando Trump, sul finire, ricorda la liberazione degli ostaggi a Gaza.
Il neo-presidente dichiara lo stato di emergenza ai confini e per l’energia, il che gli dà la possibilità di attuare misure eccezionali. Conferma e attua l’intenzione di abolire “ogni radicale e folle ordine dell’Amministrazione Biden”. Il tutto detto con aria truce e tono un po’ monocorde, senza metterci foga né energia.
Il suo discorso e le sue azioni sono tese a galvanizzare la sua base, a rassicurare i suoi elettori che lui farà, anzi fa, le cose promesse. Ma sortiscono anche l’effetto di aumentare l’ansia e la paura nell’altra metà dell’America che non lo ha votato e che l’aborre.
Di questi sentimenti, sono un riflesso le decisioni di Biden negli ultimi istanti del suo mandato: concede un perdono preventivo, cioè mette al riparo da eventuali ritorsioni giudiziarie, personalità contro cui Trump si era scagliato in campagna elettorale, bersagli del suo rancore, come il dottor Anthony Fauci, che organizzò il contrasto alla pandemia in polemica con il presidente negazionista; il generale in congedo Mark Milley, ex capo di Stato Maggiore, contrario all’impiego dell’esercito contro i cosiddetti nemici interni; presidenti e membri della commissione d’inchiesta del Congresso sulla sommossa del 6 gennaio 2021 – c’è pure Liz Cheney -.
Biden concede pure la grazia preventiva a cinque propri familiari, non perché pensi che abbiano fatto qualcosa di sbagliato – precisa -, ma per evitare loro gli strali del vendicativo magnate.
La prima giornata del Trump 2 avverte uno scricchiolio nella sua squadra di Paperoni hi-tech: Vivek Ramaswami, l’imprenditore bio-tech che doveva essere il gemello di Elon Musk nel rendere più efficiente l’Amministrazione pubblica, tagliando posti di lavoro e sprechi, s’è fatto da parte (o è stato messo da parte: non è ancora chiaro). Lui vuole diventare governatore dell’Ohio nel 2026 e non si fa coinvolgere nell’Amministrazione.
Israele – Hamas: tregua minacciata da operazione Muro di Ferro in CisGiordania

Chi si aspettava una mossa calmieratrice di Trump ha dovuto presto ricredersi con la cancellazione di quella pur piccola sanzione di Biden contro i coloni colpevoli di azioni banditesche contro i palestinesi dei territori occupati.
L’Europa percossa e attonita ai nunzi di Trump non sembra essersene accorta, o fa finta (Vignetta e dida di Gianfranco Uber)
Dopo 470 giorni di guerra, da domenica è tregua tra Israele e Hamas. Scattato il cessate-il-fuoco, Hamas ha liberato, come previsto, i primi tre ostaggi, tre giovani donne; e Israele ha scarcerato 90 detenuti palestinesi, tutti donne (69) e minori (21).
Romi Gonen, 24 anni, Emily Damari, 28 anni, e Doron Steinbrecher, 31 anni, sono state rilasciate da Hamas, affidate alla Croce Rossa e da questa trasferite all’esercito israeliano, che, in elicottero, le ha portate in Israele: dopo l’incontro con le loro madri, sono state ricoverate in ospedale, dove sono state controllate le loro condizioni fisiche e psicologiche, che appaiono buone.
La loro liberazione è stata accolta con giubilo delle loro famiglie e con trepidazione dalle famiglie di tutti gli ostaggi ancora trattenuti nella Striscia di Gaza, che, nelle prossime sei settimane – quanto è previsto duri la prima fase della tregua -, saranno rilasciati al ritmo di tre o quattro ogni sabato, fino a un totale di 33, sempre in cambio di decine di palestinesi detenuti nelle carceri israeliane.
Analoghe scene di giubilo ci sono state in CisGiordania, per il ritorno a casa dei detenuti liberati, mentre nella Striscia di Gaza migliaia, decine di migliaia, centinaia di migliaia di persone provavano a tornare a casa, sperando di trovarla ancora o sapendo già di non averne più una. Contemporaneamente, oltre 600 camion di aiuti umanitari entravano nella Striscia: acqua, viveri, medicinali, carburante, generi di prima necessità. Da domenica, il flusso è incessante.
Nelle tre ore di slittamento dell’inizio del cessate-il-fuoco, dovuto a un ritardo, da parte di Hamas, nella consegna dei nomi degli ostaggi che sarebbero stati liberati, l’esercito israeliano ha continuato a causare devastazioni e a fare vittime nella Striscia di Gaza, ormai ridotta a cumuli di macerie in molte aree. Per l’Onu, ci vorranno 14 anni per rimuovere i detriti e 40 miliardi per ricostruire.
Questa è la seconda tregua in una guerra che dura da 470 giorni, innescata dal massacro compiuto da Hamas il 7 ottobre in territorio israeliano, con oltre 1.200 vittime e oltre 250 persone catturate e portate a forza nella Striscia. Rispetto al cessate-il-fuoco del novembre 2023, durato una settimana e che portò alla liberazione di decine di ostaggi, questo è più articolato – prevede tre fasi successive – e potrebbe rivelarsi definitivo.
Resta da vedere se l’accordo resisterà: rischi di provocazione sussistono, dall’una e dall’altra parte, che siano atti di terrorismo o violenze di coloni, gesti di esasperazione o reazioni militari. E ci sono molti dubbi che la tregua possa trasformarsi in vera pace, almeno nei prossimi quattro anni.
Se l’Israele del premier Benjamin Netanyahu e gli Stati Uniti del presidente Donald Trump rifiutano la soluzione dei due Stati, ciascuno sicuro all’interno dei propri confini, e perpetrano una situazione di occupazione e di soggezione tra israeliani e palestinesi, l’incubo della vendetta e del terrorismo peserà sempre sulla regione.
L’accordo non lo ha fatto Trump, ma non c’è dubbio che la sua elezione lo ha reso possibile, dando a Netanyahu, che di Biden non si fidava, la certezza del sostegno americano e accrescendo l’ansia nei palestinesi, con la minaccia di un “inferno” per Gaza. Come se i palestinesi della Striscia l’inferno non lo abbiano vissuto per 470 giorni.
Ma proprio la certezza del sostegno di Trump consente a Netanyahu di aprire, 48 ore dopo la tregua, un nuovo fronte in CisGiordania: l’operazione Muro di Ferro fa, solo martedì, una decina di vittime, 35 feriti e 60 arrestati, a Jenin; obiettivo, colpire i gruppi militanti islamisti locali, “un altro passo – dice Netanyahu – per rafforzare la sicurezza in Giudea e Samaria”, come la destra israeliana chiama la CisGiordania, rivendicandola. Hamas replica incitando “all’escalation in Cisgiordania … contro il terrorismo dei coloni e di Israele”.
In Israele, il capo di Stato Maggiore Herzi Halevi annuncia l’intenzione di dimettersi il 6 marzo, riconoscendo le sue responsabilità della mancata prevenzione dei raid terroristici del 7 ottobre 2023.