HomeDemocrazia FuturaAnna Foa: “Spingere la diaspora ad aiutare Israele a sopravvivere”

Anna Foa: “Spingere la diaspora ad aiutare Israele a sopravvivere”

a cura di Sara Carbone Storica e critica letteraria

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La proposta di Democrazia futura: un dibattito per capire le cause dei crescenti episodi di antisemitismo e delle manifestazioni di piazza contro Israele

Dopo l’assalto dei tagliagole di Hamas ai kibbutz e la strage del 7 ottobre 2023, abbiamo assistito non solo all’acuirsi del confronto interno in Israele fra manifestanti che chiedono al governo di arrivare ad una tregua a Gaza per favorire la liberazione dei propri connazionali rapiti e coloro che sostengono la linea dura del governo giudicando necessario proseguire le operazioni avviate dal proprio esercito e ritenendo che Israele abbia prima di tutto il diritto e il dovere di assicurare la sicurezza ai propri cittadini.

La stessa dialettica la ritroviamo all’interno delle comunità ebraiche in Europa e negli Stati Uniti che subiscono crescenti episodi intollerabili di antisemitismo che, in Francia come in Italia, nel Regno Unito come negli Stati Uniti, ritenevamo appartenessero ad altre stagioni o comunque fossero legati a piccoli gruppi estremisti con scarso seguito e invece si presentano in tutta la loro drammaticità rivelando purtroppo la mancanza di conoscenze storiche da parte di larga parte dei nostri cittadini e non solo dei giovani.

Democrazia futura all’indomani dai gravi episodi avvenuti ad Amsterdam contro i tifosi israeliani giunti a sostenere la propria squadra nella trasferta in Olanda, vuole aprire un dibattito su dove va Israele di quale sostegno beneficerà il governo di Benjamin Netanyahu dopo la vittoria di Donald Trump e su come salvaguardare la democrazia e il rispetto dei diritti umani e la lotta contro episodi di violenza, razzismo e antisemitismo anche alle nostre latitudini.

Apriamo il dibattito partendo da un saggio, Il suicidio di Israele, che ha suscitato un vivace dibattito (per usare un eufemismo) in Italia e in particolare all’interno della comunità ebraica romana, scritto dalla storica Anna Foa, rimanendo aperti ad ospitare altri pareri anche contrastanti o comunque lontani dalle sue tesi, ringraziandola per aver accettato di inaugurare questo confronto.

La redazione di Democrazia futura

 

A proposito de Il suicidio di Israele di Anna Foa

Nei quattro capitoli del suo libro Il suicidio di Israele, edito da Laterza, la cui stesura è terminata nell’agosto 2024 e che ha riscontrato nell’opinione pubblica un tale interesse da sollecitarne ristampe, Anna Foa condivide una serie di riflessioni sui fatti di Gaza che non lasciano spazio all’interpretazione: la «mattanza» del 7 ottobre 2023 e tutto quello che ne è seguito sono dipesi da una serie di eventi che hanno concorso a portare acqua al mulino «dei due opposti oppositori della pace» e cioè Hamas e il governo israeliano di Benjamin Netanyahu. Prima ancora di “cedere la parola alla Storia” e ripercorrere le vicende più significative che, nel tempo, hanno contribuito a creare lo statu quo prima del 7 ottobre 2023, riferendosi alla situazione attuale, circa Israele in particolare, Anna Foa attribuisce forti responsabilità di quanto accaduto e di quanto sta accadendo, alla politica del governo presieduto da Netanyahu, un esecutivo caratterizzato dalla presenza di due ministri – Itamar Ben Gvir e Bezel Smotrovich,

«espressione di una destra razzista, sovranista e religiosa»,

esclusa da tutti i governi precedenti. In particolare, porta l’attenzione sulla riforma giudiziaria, varata nel 2023 dal governo di Netanyahu, che toglie potere alla Corte Suprema ampliando quello dell’Esecutivo, in uno Stato dove non vi è una Costituzione, e rimarca un indebolimento della sicurezza del Paese, più volte denunciata dai servizi segreti.

Le ragioni per le quali ho scritto Il suicidio di Israele. Conversazione con Anna Foa

Un contributo scritto per fermare questo processo, non certo per sollecitarlo

Sara Carbone. Professoressa Foa, come sono state accolte queste sue riflessioni? Quanto queste sue valutazioni pesano nei suoi rapporti con la comunità ebraica italiana e internazionale?

Anna Foa. So che la mia è stata una posizione forte, in particolare con questo titolo che molti, senza leggere il libro, hanno interpretato come se io volessi il suicidio di Israele. In realtà, io credo che Israele stia suicidandosi, da molti punti di vista, ma ho scritto questo libro per dare un contributo, per quanto infinitesimale, a fermare questo processo, non a sollecitarlo. Il mio libro ha quindi provocato tensioni, in particolare nel mondo ebraico romano, che – mi dicono perché io non le guardo – mi ha bersagliata di insulti nelle sue chat.

Negli ultimi giorni mi sembra che si stia verificando uno slittamento verso la discussione più che verso l’anatema. Sinistra per Israele, un gruppo a cui partecipo anche io ma molto diversificato nelle sue posizioni, ha organizzato giorni fa un dibattito vivace e molto utile nella sede dei Parioli del PD. Altre voci più ragionevoli si cominciano a levare.

Non so quali saranno i miei rapporti con le altre comunità ebraiche; tuttavia, gli amici israeliani mi chiedono di continuare a discutere di ciò che sta accadendo a Gaza, di sollecitare discussioni perché loro ne hanno bisogno.

Sono stata accusata di non aver parlato di Hamas e del 7 ottobre 2023. Non è vero ma ribadisco: il 7 ottobre è stato, per Israele, un trauma inenarrabile, che ancora non è stato riassorbito, che spiega molte cose ma che dovrebbe portare, invece, a una reazione contro il governo di Netanyahu. All’inizio sembrava che ciò fosse accaduto perché, immediatamente dopo il 7 ottobre, si era chiesto conto a Netanyahu del motivo per cui il fronte di Gaza fosse rimasto sguarnito mentre, invece, molte divisioni fossero state mandate sul fronte del West Bank che, in quel momento, non era in agitazione. E la ragione sta nel fatto che a Netanyahu interessa il West Bank: vuole riconquistarlo e annetterlo al grande Israele, evitando la nascita di uno Stato palestinese; Gaza, in fondo, è una realtà di difficile da manovrare, tant’è vero che è stata ceduta e abbandonata nel 2006.

Per quanto riguarda le responsabilità del governo israeliano e anche di una parte della Sinistra, io credo che l’“l’elefante nella stanza” sia l’occupazione. È difficile pensare che cinquant’anni di occupazione possano consentire uno Stato democratico e questo limita fortemente almeno quell’immagine di Israele come unico Stato democratico del Medioriente presentata dal governo ma non solo dal governo. Con la legge del 2018, inoltre, si impone il suprematismo ebraico e l’idea, fortemente sostenuta da Netanyahu, che Israele sia lo Stato dei soli ebrei. In tal modo, si è creata una divisione sostanziale fra arabi a cittadinanza israeliana ed ebrei a cittadinanza israeliana ma non può esistere un paese democratico che abbia una differente concezione dei suoi cittadini. Credo che l’unica soluzione per la democrazia in Israele sia un’estensione dei diritti completi a tutti, indipendentemente dalla loro religione e dalla loro appartenenza etnica. Questo concetto di cittadinanza a due velocità si è rafforzato con il governo di Netanyahu e, in aggiunta, la Knesset sta discutendo sull’opportunità o meno di porre dei limiti alla partecipazione dei partiti arabi alle elezioni. In questo momento, quindi, il razzismo e il rifiuto del mondo arabo stanno crescendo

Io vorrei sottolineare, e ci tengo molto, che la guerra contro i Palestinesi sta andando di pari passo con una restrizione forte delle libertà democratiche dentro il Paese e che questo è un tema di cui non si parla molto. Si ha, invece, la convinzione che, da una parte, vi siano gli Ebrei, dall’altra, i Palestinesi e, in mezzo, il nulla. Non è così: c’è, invece, soprattutto la polizia, organizzata dal ministro Ben Gvir, che è particolarmente violenta contro le manifestazioni; c’è tutta una serie di segnali che annunciano l’avvio di un governo autoritario, il che non ci stupisce dato il carattere religioso, messianico ed estremista di una parte di questo esecutivo. Sono convinta, inoltre, che questa direzione presa dal governo non sia soltanto una manovra dei suoi ministri estremisti ma un meccanismo di cui Netanyahu è parte attiva e consapevole. A questo punto, è evidente che si va in una direzione abbastanza pericolosa, forse addirittura più pericolosa da quella presa da Victor Orbán in Ungheria.

L’unica soluzione resta quella di due Stati. È una soluzione difficilissima perché si è scavato un tale abisso di odio fra i due mondi in questo momento, che è ben oltre il conflitto di culture: parlo proprio di un odio che – sebbene comprensibile data la situazione –, se non superato, determinerà il suicidio di Israele, un suicidio programmato dal suo governo e certamente aiutato da quello che è successo il 7 ottobre per mano di Hamas. Oltre le responsabilità di Hamas, che è organizzazione terroristica e che, in quanto tale, è contro qualunque tipo di pacificazione – basti pensare a quanto essa abbia contribuito al fallimento di quanto stabilito con gli accordi di Oslo -, ci sono delle responsabilità enormi del governo di Netanyahu, che non vuole, come ha dichiarato e sancito qualche mese fa, lo stato palestinese ma che immagina, piuttosto, soprattutto tra i suoi ministri più estremisti, un grande Israele.

La lunga storia del sionismo e della convivenza con i palestinesi

Sara Carbone. Lei afferma che il Sionismo ha una lunga storia che precede la nascita dello Stato di Israele e che ha subito molte trasformazioni nel tempo per cui sarebbe più opportuno parlare di Sionismi. In ogni caso, in primo luogo, esso è

«l’ideologia che considera gli ebrei un popolo e che ne sostiene il diritto ad uno Stato, [che] vuole creare un ebraismo nuovo, cancellare venti secoli della diaspora, interpretati come oppressione e servitù».

Ridefinendo l’ebreo anche dal punto di vista fisico, i sionisti

“rifiutano la diaspora”.

Questo “rifiuto”. che si configura doppiamente come tale – rifiuto di una storia che è avvenuta, la diaspora appunto; incapacità di leggere una storia che, dopo il secondo conflitto mondiale, sarebbe andata sempre di più verso la multietnicità e la mobilità nazionale – in che misura, secondo lei, gioca la sua parte rispetto a tutti gli altri eventi successivi che hanno determinato la fine dei rapporti “sostanzialmente buoni” tra arabi ed ebrei almeno fino alla conferenza di Parigi del 1919?

Anna Foa. La Storia più che andare da una certa parte sta cercando di andare da un’altra parte perché i nazionalismi sono rinati. È esistita una corrente sionista che ha pensato a una pacificazione, a una vita in comune con gli Arabi e con quello che stava diventando l’identità palestinese che già si andava formando nell’Ottocento perché non è vero che l’identità palestinese si forma solo in risposta agli Ebrei; essa si forma già nella seconda metà dell’Ottocento coi grandi cambiamenti economici e sociali che avvengono nell’ultima fase dell’Impero ottomano. Comunque, resta il fatto che esiste una corrente sionista ben consapevole della presenza dei Palestinesi e di una terra che non è una terra senza abitanti, una terra che aspetta degli abitanti; la prima immagine che si ha è quella di un unico Stato con due diritti, con una vita in qualche modo pacificata. Con la grande rivolta del 1936 – che è già inserita in un contesto di relazioni internazionali che preludono alla guerra perché ci sono gli inglesi timorosi che i Paesi arabi possano schierarsi con Hitler, come poi accadrà – si perde la possibilità di una vita in comune dentro un unico Stato; la Shoah e quello che succede con i profughi della Shoah cambia le caratteristiche stesse del Sionismo. Il Sionismo è una scelta non una fuga, determinata anche da una ideologia che portava verso il rifiuto della diaspora, un’idea di nazionalità più che nazionalismo. Teniamo conto del fatto che era un afflusso di gente traumatizzata per violenze inenarrabili, riassorbite con difficoltà e, quindi, un mondo completamente diverso arriva in Palestina, che non è ancora Israele e che diventerà Israele. La guerra del 1948 è una guerra molto dura: gli storici discutono se ci fosse effettivamente da parte dei paesi arabi il rifiuto totale di Israele o se invece ci fosse un gioco interno; io ne parlo, cosa che probabilmente non piace molto ma che comunque è vera, nel senso che la storiografia israeliana che è molto più avanzata di quella italiana su questi temi ne discute apertamente: i palestinesi e i paesi arabi volevano davvero che Israele fosse cancellato o si trattava di una mossa propagandistica per una  discussione sui limiti e la presenza del nuovo Stato? È una guerra molto dura perché ci sono degli episodi terribili – Come il massacro del villaggio di Deir Yassin – che, però, allora, vengono sanzionati dal governo o suscitano una risposta di rifiuto. I giornali israeliani dicono del tempo:

«Stiamo diventando come i nazisti».

Ecco, questa è una frase che adesso viene considerata assolutamente antisemita, e lo è in questo contesto, ma allora era una frase che veniva dagli ebrei, veniva dagli ebrei che rifiutavano di agire come i nazisti. La guerra del 1967 cambia di nuovo tutto perché viene propagandata moltissimo nei paesi arabi in particolare in Egitto, ma gli Israeliani si muovono prima, precedono l’aggressione, ammesso che l’aggressione sarebbe davvero avvenuta poiché, anche qui, la storiografia israeliana mette in dubbio un’affermazione così netta è difficile: distinguere, infatti, all’interno dei paesi arabi, ciò che è propaganda, il linguaggio di una propaganda molto fiorita, molto violenta, tipica del mondo arabo, con quella che è la reale intenzione della guerra. Comunque sia, la guerra viene stravinta da Israele che si ritrova con questa occupazione e, in quel momento, si discute sull’opportunità di tenere i territori occupati, in attesa della pace o cederli senza contropartita con un gesto di generosità. Si opta per la prima ipotesi e, a questo punto, comincia l’occupazione delle terre su cui sarebbe dovuto nascere lo Stato palestinese: i sionisti religiosi – il sionismo religioso nasce in questi anni – si impegnano a creare insediamenti, a occupare territori. Il Sionismo religioso – si pensi all’uccisione, nei primi anni Novanta, di tanti Palestinesi in preghiera nella moschea di Hebron, evento che ha creato una divisione fortissima, un senso di sfiducia dei due mondi proprio durante l’unico momento di tentativo reale di pacificazione tra essi – ha prodotto non pochi danni.

Sara Carbone. Il Sionismo è stato equiparato al razzismo e al colonialismo. Lei fa osservare che questa equiparazione ha avuto la sua efficacia da un punto di vista politico – propagandistico ma non a livello di analisi storica. Perché? Inoltre, dopo la prima Intifada e gli accordi di Oslo, comincia a diffondersi la parola apartheid. Quanto la parola apartheid è calzante per la questione mediorientale?

Anna Foa. Il Sionismo è stato equiparato al colonialismo è ciò ha avuto un grande valore propagandistico: si provi a immaginare cosa è stato per i Palestinesi sentir dire che il Sionismo era uguale al colonialismo. Credo che, nel Sionismo, ci siano molti elementi coloniali ma anche molti altri non coloniali. Il Sionismo è qualcosa di diverso dal colonialismo tradizionale; sono state usate altre espressioni, altre interpretazioni come quella di settler colonialism e così via. Qui, in Italia, chi parla di colonialismo viene subito identificato come antisemita, mentre la discussione, sia negli Stati Uniti sia in Israele, verte tranquillamente su questo concetto come un criterio di interpretazione storica. Quanto all’altro termine che viene usato cioè quello di apartheid, certamente non c’è l’apartheid in senso tradizionale e certamente non c’è in Israele ma c’è nel West Bank e si rafforza sempre più.

 

Un confronto difficile fra due memorie

Sara Carbone. Nelle battute finali del secondo capitolo, intitolato significativamente Identità, lei tenta un’analisi delle cause profonde del conflitto e pone alla base della sua riflessione il concetto di costruzione identitaria che caratterizza i «passati fondativi» dei popoli. Lei scrive che l’identità ebraico – israeliana e quella palestinese sono entrambe

«identità nazionali in cui la dimensione della catastrofe e del trauma svolgono un ruolo centrale».

Per gli Israeliani, il «trauma scelto» è la Shoah; per i Palestinesi è la Nakba. Le due nazioni hanno puntato invariabilmente sul «senso della perdita» contribuendo alla creazione di “identità vittimarie”. Quanto i nostri sistemi educativi hanno alimentato la memoria di identità vittimarie e quanto queste influiscono sulla nascita dei conflitti?

Anna Foa. Beh, dipende. Certamente molta parte della costruzione della memoria della Shoah è stata vittimaria; ci sono, poi, persone e organizzazioni e libri che, invece, hanno cercato di costruire una memoria non vittimaria, soprattutto estendendo la funzione della memoria della Shoah anche ad altre catastrofi umane. Penso, a esempio, a tutto il lavoro della onlus Gardens of the Righteous Worldwide (Gariwo), a Milano, sul confronto fra i diversi genocidi e sul fatto che la costruzione della memoria, il tentativo di dare una memoria, costituisca un insegnamento a partire dal quale costruire un’identità e non sia uno scrigno in cui chiudere l’identità. D’altra parte, la memoria della Nakba è particolarmente forte, potente, in un Paese in cui, da settecento mila espulsi nel 1948, si è arrivati a cinque milioni se si considera tutta la diaspora palestinese; almeno due milioni e mezzo di Palestinesi, per esempio, ancora serba il ricordo delle case che ha dovuto abbandonare –  case che poi sono diventate bellissime, ambite dagli ebrei più ricchi; se ci si entra dentro e si ammira la loro bellezza, si deve pensare che i loro proprietari erano arabi i quali sono stati espropriati e cacciati! Ma il confronto fra Nakba e Shoah è un confronto difficile da fare.

Israele è una forza in grado di abbattere il suo governo

Sara Carbone. Bashir Bashir e Amos Goldberg, nell’introduzione al libro Olocausto e Nakba. Narrazioni tra storia e trauma, testo che lei cita esplicitamente nel suo libro, affermano che, per poter procedere a una “nuova sintassi”, alternativa a quella dicotomica attuale creatasi nei rapporti fra Israele e Palestina, è necessario superare alcune difficoltà determinate dagli aspetti asimmetrici caratterizzanti i passati fondativi delle due nazioni. L’Olocausto, per esempio, è percepito ancora da molti ebrei, come evento catastrofico non paragonabile a nessun altro nella Storia; la Nakba, pena che i Palestinesi scontano per una colpa non commessa (ossia la Shoah), è les lieux de memoire,

«un presente continuativo».

Rispetto a tutto questo e alla situazione attuale, come uscire da questo stato di impasse e da questo presente di violenza? Insomma, secondo lei, da dove cominciare?

Anna Foa. Innanzitutto, fino a che c’è la guerra niente può andare avanti e la prima mossa sarebbe quella di mettervi fine. Ovviamente il conflitto non può concludersi semplicemente sulla base della buona volontà di Israeliani e Palestinesi anche perché non avrebbe dovuto essere una guerra contro i Palestinesi ma una guerra contro Hamas e, adesso, contro gli Hezbollah. È chiaro che, man mano che il conflitto si estende, tutto diventa più difficile ma io non vedo, però, altra soluzione oltre a un tentativo di pacificazione: due popoli accanto, uno accanto all’altro, probabilmente all’inizio senza grandi contatti. Non so, tuttavia, quando potrà finire per i Palestinesi il trauma di Gaza, che è un trauma terribile – 40 mila morti! – così come per gli Israeliani il trauma della Shoah che è stato volutamente e artatamente ripreso dal governo. Sebbene i fatti del 7 ottobre 2023 abbiano determinato un richiamo, non corretto storicamente, ma spontaneo quanto comprensibile alla Shoah, che ha creato nell’animo degli Israeliani di nuovo una “situazione vittimaria”, non vedo una soluzione alternativa a quella che può giungere solo da Israele. Penso che da Israele, che sta conducendo la guerra, e dall’interposizione di forze internazionali possa giungere una soluzione: Israele non è il suo governo ma è una forza in grado di abbattere il suo governo, capace di creare uno stato d’animo diverso, orientato verso la pace. Certo, tutto questo non mi sembra che sia molto realistico, potrebbe essere addirittura utopistico ma, francamente, non vedo altra soluzione. E pensiamo al Sudafrica, al Ruanda, a tutte le esperienze storiche che sono state di pacificazione.

Creare un’opinione pubblica ebraica favorevole a una soluzione pacifica

Sara Carbone. Non vuole pensare – così ha scritto – che tutti gli Ebrei vedano in tutti gli Arabi dei terroristi pronti a sgozzarli e si dice convinta che quello che sta accadendo a Gaza sia solo

«il volto terribile della vendetta».

Lei conclude la scrittura di queste pagine nell’agosto del 2024 e già allora denuncia la debolezza delle voci della diaspora statunitense e il silenzio di quella europea di fronte alle atrocità di una vendetta. Oggi che la vampata di odio non accenna a spegnersi, le chiedo quanto, secondo lei, le voci degli Ebrei della diaspora aiuterebbero ad accelerare la fine della vendetta? Se il libro lo scrivesse oggi, cosa aggiungerebbe?

Anna Foa. Non so in che misura, per cominciare, la diaspora dei Palestinesi possa aiutare perché, diversamente da quella ebraica che è organizzata in comunità con forti legami con Israele, mi sembra, in qualche modo, più distante da quanto sta accadendo, eccezion fatta per i giovani delle università. Sicuramente la diaspora ebraica potrebbe creare un’opinione pubblica ebraica favorevole a una soluzione pacifica, che rifiuti il razzismo ebraico (non generale); parimenti, la diaspora palestinese, potrebbe creare un’opinione pubblica nel mondo diasporico palestinese che rifiuti il terrorismo e che sostenga, innanzitutto, un cambiamento nel governo del West Bank, nei territori dell’autonomia palestinese. Forse una nuova leadership da tutte e due le parti potrebbe portare a qualche risultato. Parlo di “qualche risultato” e non di una soluzione perché la situazione mi sembra molto difficile: la disillusione degli Israeliani di Sinistra che hanno sempre lottato per una pacifica convivenza ma che, ora, vedono i Palestinesi – come dire – come quelli che hanno sgozzato i loro figli, i loro fratelli, è qualcosa difficile da superare. Sicuramente, tale superamento è avvenuto in altri contesti – penso, appunto al Sudafrica, al Ruanda – e, forse, potrebbe anche accadere in questo ma solo all’interno di un’altra situazione generale e con l’aiuto di altri paesi, dell’Unione Europea, degli Stati Uniti.

Riflessioni di “Un’ebrea della diaspora” che segue ciò che sta accadendo in Israele molto da vicino

Sara Carbone. Da «ebrea della diaspora», come si definisce fin dalle prime pagine del libro, ritiene imprescindibile un ripensamento dell’identità ebraica e del suo modo di rapportarsi col mondo quando questo conflitto si sarà concluso. La tensione etica che accompagna tutte le sue argomentazioni emerge con forza nelle battute finali quando scrive:

«…Ma i morti di Gaza sono opera di uno Stato che si proclama a gran voce democratico. […] E gli ebrei del mondo, quelli della diaspora che si riempie la bocca e la mente di etica ebraica e di pensiero ebraico, come possono accettarlo senza reagire?».

Sono parole che rivelano contemporaneamente una presa di coscienza e un processo di autocoscienza. Quanto attivi sono i processi di coscienza e autocoscienza, tra gli ebrei israeliani, tra quelli della diaspora e nel mondo dell’opinione pubblica in generale, indispensabili per ogni tipo di dialogo, nella nostra società attuale?

Anna Foa. Non so se sia autocoscienza ma, certamente, Israele è un paese pieno fitto di psicanalisti, di psicologi e so di un importante movimento di aiuto, di sostegno, che sta lavorando sul trauma. È essenziale che tutto questo abbia spazio perché non penso sia facile elaborare il trauma autonomamente da parte di chi ha perso un familiare il 7 ottobre 2023; ho sentito psicanalisti dire che stanno lavorando sul dramma, che è un dramma collettivo, come lo è stato la Shoah, dramma forse non elaborato allo stesso modo perché messo da parte e, poi, ripreso più tardi. Stavolta è diverso, ci sono gli strumenti per lavorare: è un movimento che viene dal basso, che non è organizzato dal governo, certo dalle istituzioni, dagli ospedali, ma non dal governo direttamente e, credo, che al governo disturbi perché, in qualche modo, introduce un elemento completamente nuovo nel discorso.

Non penso, del resto, che un fanatico messianico, che vuole la grande Israele e gira col fucile sparando ai Palestinesi, possa mai fare un processo di autocoscienza. Autocoscienza… non lo so, l’autocoscienza può venire qui, in un mondo in cui non ci cadono i missili sulla testa; se ti cade un missile su tuo figlio, è difficile fare autocoscienza.

«Ebrea della diaspora»

è, in qualche modo, una definizione che do di me stessa, che non sono un’ebrea che vuole andare a vivere in Israele, non ho un’anima sionista di per me; il mio bisnonno era rabbino capo di Torino, contrario al Sionismo come tanti all’epoca – intendiamoci, non era l’unico; non sono contraria al Sionismo ma non sono nemmeno attivamente sionista altrimenti avrei pensato di andare a vivere là; mi piace Israele, ho dei legami  affettivi e storici con Israele anche se non ci vado da molti anni; ho voluto dire che sono riflessioni di un’ebrea della diaspora ma di un’ebrea della diaspora che segue ciò che sta accadendo in Israele molto da vicino, entrando direttamente in quella che è la discussione interna, che si informa, che legge Haaretz tutte le mattine, che legge libri di storici israeliani che sono molto più avanzati dei nostri perché discutono, cosa che, qui da noi, sembra che si faccia poco.

Le guerre in corso e la crisi dell’impalcatura del diritto internazionale

Sara Carbone. Nelle pagine introduttive, lei scrive che

«Troppe sono le voci da una parte e dall’altra che si levano a difendere Hamas o a difendere la politica di Netanyahu senza realmente conoscere la storia precedente, senza riflettere sul valore delle parole».

Quanto è corretto parlare di genocidio e quanto di crimine contro l’umanità per descrivere la reazione del governo israeliano all’attacco terroristico di Hamas del 7 ottobre 2023?

Anna Foa. Io non sono un giudice di un tribunale internazionale; credo che i tribunali internazionali dovranno occuparsi, a guerre finite, di questo tema ammesso che esistano ancora perché credo anche che le vicende, dall’inizio della guerra tra Russia e Ucraina a quella fra Israele e Gaza, abbiano messo fortemente in crisi, oggi, tutta l’impalcatura del diritto internazionale: un vero disastro per tutti noi e per la politica internazionale. Comunque, al di là di questo, io penso che ci sia spazio per la discussione: ci sono giudizi, come quello dell’intenzionalità assoluta, che possono essere messi in dubbio ma, di per contro, ci sono crimini contro i civili che vengono compiuti quotidianamente e il diritto internazionale prevede che in presenza di un ostaggio non si può mettere a rischio la sua vita continuando a sparare come se niente fosse. Israele e il suo governo, sotto la spinta di due ministri come Ben Gvir e Smotrovich, negano di continuo questo dicendo che gli ostaggi sono sopra le strutture di Hamas e che, quindi, bisogna sparare. In definitiva, il diritto internazionale prevede che non si possono uccidere i civili e questo principio è stato sistematicamente violato, in tutti i modi possibili, tanto da Hamas quanto dal governo israeliano.

“Assicurare agli israeliani di sentire dolore e empatia per i palestinesi di Gaza”

Sara Carbone. Quale domanda non lei ho rivolto e, invece, avrei dovuto?

Anna Foa. La domanda che non mi ha fatto forse è perché questo libro è stato letto così tanto. Perché questo è un argomento che attrae molto, forse anche perché il titolo spingeva a domandarsi perché parlavo di “suicidio” di Israele. Io credo che sia stato letto in parte per capire in parte per capire cosa io volessi dire e vorrei che fosse molto letto dagli ebrei italiani; mi sembra che stiano cercando di non leggerlo, vorrei appunto che fosse letto perché, in realtà, questo libro non è contro Israele; questo libro cerca disperatamente di spingere in una direzione in cui la diaspora aiuti Israele a sopravvivere. Questo io voglio fortemente e vorrei che sopravvivesse non solo dal punto di vista materiale ma anche dal punto di vista etico. Penso che gli israeliani abbiano il diritto, per la loro storia, di sentire dolore e empatia per i palestinesi di Gaza; se non lo fanno è perché la loro morale è stata in qualche modo distrutta, abbassata, da una parte, da Hamas e, dall’altra, da Netanyahu. Penso che sia un loro diritto storico, civile e morale.

Formia, novembre 2024

 

 

 

 

Democrazia Futura
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