Giorgia Meloni dice che era ed è questione privata.
Più o meno le opposizioni dicono che è una questione politica.
Non ho evidenze originali per dire con argomenti nuovi che questione, tra le due, allora sia. Anche se ci vuol poco a cogliere entrambi gli aspetti.
Provo a raccontare qui, passando da qualche veloce tappa tra prima e seconda Repubblica, che sicuramente e primariamente essa è una questione istituzionale.
Perché, se una volta i pochi consiglieri concessi ai ministri erano studiosi e competenti esperti, da tempo ormai la comunicazione istituzionale è stata invasa dalla politica, per presidiare visibilità e consenso, non per rendere servizi al cittadino e miglioramento della “buona amministrazione”.
Oggi è possibile che un ministro – che arriva a disporre di 16 consiglieri – istruisca un ruolo per chi si dichiara influencer. Cioè, una professionista delle stimolazioni di consumi. Vicende che arriva dopo 30 anni di distorsioni, di cancellazione di regole e di umiliazione degli aspetti istituzionali della funzione di relazione con i cittadini. E di episodi – con altri governi – anche peggiori di questo.
Ecco perché il tema, credo, non si riduca solo alla pagella contesa che si vuol dare a una coppia finita, per propria colpa ma soprattutto per “falle di sistema”, dalle stelle alle stalle
Il caso Sangiuliano-Boccia, una scia destinata a prolungarsi
Il caso Sangiuliano-Boccia ha guidato l’agenda mediatica di una settimana. Alla fine, ha trovato la soluzione che forse sarebbe stata necessaria almeno tre giorni prima.
In ogni caso la scia è destinata a prolungarsi. Dentro ci sono questioni di etica pubblica, di qualità della classe dirigente, di evoluzione del rapporto tra politici e amministrazioni, di forme e sostanza delle politiche culturali. E molte altre cose. Tra cui le imprevedibilità e le speculazioni proprie di ogni intreccio politico-mediatico.
Non colgo questa occasione per aggiungere opinioni giuste o sfacciate, alla fine difficilmente cesellabili, sulla figura istituzionale di Gennaro Sangiuliano. Andrebbe esteso il ragionamento anche al quadro di governo, per gli aspetti necessari e non per illazioni. Meno che mai per indagini sprovvedute (nel senso che sono solo basate su spunti giornalistici) sulla figura di Maria Rosaria Boccia (tra sincerità e furbizie, per qualcuno Mata Hari per altri la tipica fonte di sbandate di persone che mescolano pubblico e privato, opportunità e impunità, eccetera).
Comunicazione e rappresentazione del potere
Colgo invece l’occasione per fare qualche considerazione sullo specifico di questa rubrica, che è dedicata – in tutti i suoi aspetti – al complesso tema della rappresentazione. Spesso proprio al tema della “rappresentazione del potere”. Dunque, sull’evoluzione stessa della comunicazione.
Nel caso di un ministro (cioè, di un soggetto politico che assume pro-tempore incarico istituzionale) diventa questione sia di comunicazione politica che di comunicazione istituzionale
In una democrazia temperata dal diritto dovrebbero essere chiari sempre i confini e le distinzioni tra questi due campi che hanno punti di convergenza ma anche funzioni, ruoli e obiettivi diversi.
Ma da tempo in Italia i confini si sono fatti confusi e molte volte derubricati. Tanto che – in generale – la componente politica ha assunto una soverchiante importanza su quella istituzionale.
Creando marginalizzazione dei ruoli che appartengono alle amministrazioni e sconfinamenti per i ruoli che appartengono alle istanze politiche. Chi vi parla lo dice e lo scrive da anni.
Questo crescendo si è formato con evidenza alla caduta della prima Repubblica e ha avuto in Silvio Berlusconi il primo e più grande dei trasformatori di questo delicato campo (politica e istituzioni) che dovrebbe contenere distinzioni e sintesi. Ora siamo in un’epoca ancora più evoluta in cui cambiano radicalmente gli stili di governo, la mutazione genetica della politica sempre più guidata dal marketing, la fragilizzazione dei partiti. Cose che portano quindi all’arrembaggio comunicativo e allo scopo elettorale che sono cose più importanti delle virtù sociali della politica, come la pedagogia valoriale e l’impegno per la spiegazione trasparente.
Ma è proprio l’evoluzione tecnologica a generare nuovi parametri, nuovi valori, nuove professionalità che corrispondono al peso dei processi digitali rispetto alle forme storiche dei sistemi relazionali e informativi.
Consentitemi un riferimento di esperienza personale. Anni fa, dopo venti anni di svolgimento di responsabilità di management nelle aziende pubbliche e nell’amministrazione pubblica in questi campi, eventistica istituzionale compresa, tra cui dieci anni a Palazzo Chigi, pur avendo fatto la scelta per l’opzione universitaria di ruolo, mi sono capitati tre casi di consiglierato di ministri, chiamato ad incarichi esercitati con le forme consentite dal decreto di gabinetto sempre per produrre conoscenza organizzata a scopi di miglioramento dei processi decisionali, quindi ricerca, analisi, studi, eccetera. Tra questi casi – lo cito dunque per conoscenza diretta di quell’ambiente – anche quello propiziato dal ministro dell’area oggi della Cultura al tempo dei Beni Culturali, che nel mio caso fu Francesco Rutelli (che era anche vicepresidente del Consiglio) allo scopo di assicurare il coordinamento di una commissione di economisti della cultura – presieduta da un economista di primordine che era il professore Walter Santagata – per aggiornare il quadro di ricerca sull’economia della creatività in Europa e in Italia allo scopo di migliorare le politiche pubbliche di un segmento di forza del sistema Paese ma insufficientemente presidiato dalle istituzioni. Al tempo il ministro avrà avuto al massimo quattro consiglieri – cioè, un tetto molto limitato – e tutti con forti Curricula a sostegno di potenziamento di aspetti di eventuali debolezze nelle competenze stabilizzate nell’amministrazione.
Adesso ho letto che il ministro della Cultura sarebbe arrivato a sedici posizioni di consigliere.
Trasformazioni di sistema e rimodulazione dei modelli organizzativi
Il caso Boccia serve ad indagare non tanto dove è finito il rischio di un rapporto ravvicinato tra un uomo con alcune debolezze in proprio e una signora avvenente ammessa a non pochi sconfinamenti; ma la logica per la quale una figura che presentava formalmente il profilo di una ‘influencer’ è diventa essenziale, opportuna e – salvo l’handicap di una presunta relazione personale con il ministro – adatta a svolgere mansioni professionali integrative tra il ministro stesso e la sua amministrazione.
Non ironizzo e non faccio il passatista.
Leggo i cambiamenti nelle dinamiche dell’evoluzione digitale oggi in cui l’area dei socialmedia sta scalzando quotidiani e sistema radiotelevisivo, nel senso di processi verticali e unilaterali di comunicazione, lasciando sempre più spazio alla potenza capillare, senza confini, interpersonale, interattiva, molecolare che ha la sfera digitale. È evidente che la trasformazione di sistema porta con sé una rilettura profonda dei modelli organizzativi che riguardano non solo gli ambiti della comunicazione ma tutto ciò che fa tessitura tra società e istituzione. Settore per settore.
Dunque, una liquidità funzionale immensa, una vaporizzazione, una prevalenza delle apparenze immediate e dell’immaginario rispetto a contenuti solidi e diciamo così scientifici.
Ancora di più questi settori dovrebbero essere il territorio in cui esercitare infinite accortezze negli adattamenti. Infinite attenzioni a ricalibrare il ruolo dei dipendenti e a valutare eventuali e davvero necessarie protesi professionali.
Questo è un articolo nato da un podcast, non uno studio sui nuovi modelli organizzativi della comunicazione pubblica. Vado dunque per le spicce e tocco punti molto generali che spero chiariscano il punto di vista.
Il mio punto di vista è che si è persa la regia istituzionale di questa trasformazione; si sono perse regole per il governo delle prassi; si sono tolti i paletti di coordinamento generale di un processo che avrebbe comportato un ruolo di punta di specialismi interni e altre defezioni che erano già in avvisaglia ai tempi del declino della prima repubblica. È rimasto solo lo spauracchio della Corte dei Conti e quindi finisce tutto a contare scontrini e ricevute, non ambiti di controllo sulle dorsali dei comportamenti pubblici.
A quali avvisaglie mi riferisco? Parlo del bisogno della politica di mettere sempre più mano agli spazi della comunicazione istituzionale per scaricare su costi pubblici il problema della visibilità della politica stessa, ovvero dei politici stessi. Insomma, la precondizione di un presidio, da svolgere in forma costante e anche in luoghi autorevoli (cioè, condotto da ambiti istituzionali, non come faceva Marco Pannella coraggiosi banchetti per strada), alle esigenze elettorali e comunque alle condizioni di organizzazione del consenso.
Il mondo di mezzo tra istituzioni e cittadini a giustificazione e legittimazione della propaganda
Questa dinamica è stata dilatata senza freni. Non ha avuto più remore interne, perché quelle strutture (chiamiamole della comunicazione istituzionale) sono state plafonate per lo svolgimento di compiti puramente amministrativi. Creando così la giustificazione per la flessibilità. Non facendo evolvere professionalmente e creativamente le strutture amministrative (che era stato il grande tema tra gli anni Ottanta e Novanta) si è poi sostenuta la carenza professionale interna e dunque la necessità di utilizzare a diretto riporto figure scelte ad hoc. A poco a poco – certamente molte figure che si sono avvicendate nel potere degli ultimi 30 anni ci hanno messo del proprio – si è creato un “mondo di mezzo” tra istituzioni e cittadini che è diventato spazio di manovra per quell’indistinto veleno che per ogni democrazia è la legittimazione della propaganda. Cioè la caratteristica base dei sistemi autoritari, delle dittature, diventata invece legittima e protetta anche nelle democrazie in cui dovrebbe imperare il bilanciamento dei poteri e il controllo dei vincoli istituzionali).
Altro che “senso dello Stato”!
Per il grosso delle generazioni al potere di recente quell’idea dello Stato (che avrebbe dovuto aprirsi professionalmente e per concorso alle competenze economiche, sociologiche, tecnologiche, comunicative, penso alle culture di riforma che ruotavano attorno al Rapporto Giannini tra gli anni Settanta e Ottanta) era meglio trascurarla e lasciarla alla sua definizione di “burocrazia”.
Una buona scusa per tutti (sempre più invocata) per gonfiare le segreterie e gli uffici di diretta collaborazione con personale non assunto per concorso ma flessibile al punto giusto per un utilizzo politico. L’etichetta è stata: “per governare meglio”. Pensate un po’…
“Qui ci vorrebbe un portasilenzi non un portavoce”.
Quando arrivò il primo governo Berlusconi (1994), il clima della comunicazione governativa era stato interpretato alla grande, cioè per meglio dire con la sua ironia vagamente cinica, da Giulio Andreotti che tardando la nomina del suo portavoce (parlo dell’ultimo suo governo nel 1991) venne sollecitato a farla per corrispondere semplicemente alle doverosità previste da regole di governo e di cerimoniale. Il presidente al suo settimo governo rispose alla sollecitazione con una frase poi diventata celebre:
“eh, caro mio, ma qui ci vorrebbe un portasilenzi non un portavoce”.
Eravamo all’opposto dell’ipertrofia relazionale e comunicativa di uno Stato che tuttavia al tempo volevamo più aperto e colloquiale, senza immaginare che a un certo punto sarebbe stato la prateria degli influencer.
Quanto a Silvio Berlusconi, la prima cosa che fece una figura formata in altri contesti (l’impresa privata), con altre esperienze orientate commercialmente e con una idea certamente più lasca dei confini tra istituzioni e amministrazioni, fu quella di chiamarsi una collaboratrice (per altro una signora seria, morigerata, tecnica) che sulle prime si cercò di appioppare ai costi stessi dell’Amministrazione che evidentemente non poteva sostenere né quel carico finanziario né quel ruolo del tutto imprevisto.
Era la mitica signora Simonetto che gestiva “ad personam” tutto il flusso dei materiali fotografici riguardanti il presidente: dalla produzione alla circolazione fino all’intervento sul mercato fotografico per togliere di mezzo materiale giudicato sfavorevole. Alla fine, lavorò a stretto contatto con il presidente, impiantandogli anche uno studio fotografico a Palazzo Chigi, ma per come erano le regole e anche per come era fatto lui con un contratto di lavoro non a carico dell’Amministrazione ma regolato dalla Fininvest.
La comunicazione istituzionale come “estensione alle istituzioni della comunicazione politica”. Il caso di Matteo Salvini al Viminale
Eravamo tuttavia ai prodromi strutturali della cultura della propaganda, non ancora all’influencer che arriverà come professione di punta quindici anni dopo.
E infatti quindici anni dopo arrivò sulla scena il grande salto di qualità dell’organizzazione dei modelli di esercizio della comunicazione istituzionale diventata vera e propria “estensione alle istituzioni della comunicazione politica”. Di cui fu artefice il politico italiano con più chimica per la trasformazione dei pani e dei pesci, che preso un partito alle soglie dell’estinzione lo portò – proprio interpretando in modo apparentemente surreale ma in sostanza con il propagandismo digitale di massa – ad essere determinante nella politica italiana.
Parlo di Matteo Salvini e della costituzione, centrale nel suo intreccio di ruoli di segretario della Lega e di Ministro dell’Interno, di una squadra ampia, robusta, dinamica e moderna che si autodefiniva “La Bestia” che aveva compiti di guerriglia digitale nel proteggere il ministro da critiche e nell’attaccare spietatamente gli avversari e i critici. Anche se collocato operativamente nell’ambito della Lega, il contenuto riguardava in modo sempre mescolato la doppia figura di Matteo Salvini (compreso l’uso delle felpe in funzione di ministro per identificarsi politicamente con le città che visitava oppure delle divise della polizia per fare attività politica) e esso costituiva la “bandiera” della politicizzazione totale del ruolo anche di guida del dicastero, marginalizzando a passacarte amministrativo il servizio informazione del Viminale.
La vicenda di quel nucleo declinò per la caduta del suo capo Luca Morisi (figura né banale né stupida) in guai giudiziari (prostituzione e droga). Ma il senso del modello di intreccio tra comunicazione istituzionale e comunicazione politica fu pervasivo. E convinse molta politica – non solo a destra – ad occuparsi di comunicazione in modo assai più remunerabile politicamente che dando retta a chiacchieroni moralisti come me sui limiti tra politica e amministrazione e soprattutto su concetti come “servizio al cittadino” e “cultura della spiegazione”. E via discorrendo.
La digitalizzazione, una stampella preziosa per il sistema declinante dei partiti? …
Ecco insomma che la digitalizzazione diventa – chi lo nega? – da grande potenzialità per l’accesso, per l’ampliamento della conoscenza, per la diffusione e l’interazione cognitiva, dunque grande base teorica per sviluppi non solo commerciali ma anche istituzionali e pubblici – una stampella preziosa per il sistema declinante dei partiti in cui stare al governo significa prima di tutto impadronirsi di questa leva, allargando, dilatando in questo quadro funzioni, ruoli e obiettivi che l’Amministrazione stessa fatica a presidiare (come si può capire non è semplicissimo metter su un concorso pubblico per creare un reparto “Bestia” in un Ministero, tanto è vero che in altri paesi dove non vogliono correre rischi di etica pubblica tutti i giorni, finisce che queste cose le fanno fare alla fine ai servizi segreti).
Lasciamo ad altra occasione il tema della dilatazione della politicizzazione della Rai, che è da tempo parte della perdita del rapporto con ciò che una volta era chiamata “parte della costituzione materiale”
È questa la cornice generale in cui si colloca la dilatazione dell’area dei consiglieri (moltiplicata di quattro o cinque volte rispetto a solo una quindicina di anni fa) e l’interesse per una figura di influencer (che, nel caso in questione, si dichiara tale con la qualifica generale di “imprenditrice”, sostanzialmente di se stessa) che per dare un colpo d’ala al suo curriculum e ai sui followers non ha alcun motivo per brigare per il modesto compenso dei consiglieri in decreto di gabinetto (che invece è giusto e doveroso retribuire), spostando tutta la funzione al “lavoro personale per il ministro”. Patrimonializzando immagini di prossimità (foto, lettere, documenti) che professionalmente valgono più di uno stipendio.
… o la legittimazione dell’uso personale del potere?
Non entro nei contenuti di questo svolgimento per i tre mesi in cui è durato. Non ho dirette cognizioni. Ho solo letto i giornali. Dico solo che esso fa parte della dilatazione di sistema, rispetto a cui una figura di ministro che ha senso dello Stato riesce a collocare queste cose in ambiti di servizio e dunque intermediate da un funzionario apicale. Mentre una figura che si sente in carriera politica baciato personalmente dalla sorte (riscrivere la storia, legittimare le fonti della cultura di destra, tenere a bada intellettuali e giornaloni di sinistra, aspirare al governatorato della Campania, insomma alimentare ora per ora il proprio ego, eccetera) finisce che non sa dare limiti a questo genere di professionalità che alla fine entrano anch’esse nella legittimazione dell’uso personale del potere.
Chiudo qui questa mia riflessione. Semplicemente per sostenere che scaricare sull’improvvisata coppia passata in poche ore dalle stelle alle stalle (naturalmente a causa di loro stessi) tutta la malformazione di sistema in cui si è arrivati, non è del tutto giusto. E non aiuta a stimolare – come ora sarebbe drammaticamente necessario – nella politica, nelle istituzioni e nella libertà di critica una vera spinta a necessari e per adesso impensabili ravvedimenti.
Anche stavolta finirà con le pagelle alle persone. Da applaudite a bocciate senza che il contesto causante cambi di un centimetro.