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Perché le feste civili italiane sono in crisi nella riorganizzazione della politica in senso bipolare

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Dice lo storico Luca Baldissara che con la metà degli anni Novanta, cade il paradigma di lettura del Novecento che si è chiamata al tempo “unità dell’arco costituzionale”.  E arriva lo schema che riorganizza la politica del presente in senso ampiamente bipolare. L’età del maggioritario. Che in un certo senso legittima anche il bi-radicalismo, cioè i fattori che stressano di più le due parti, in tempo di una comunicazione generalmente più veloce e più assertiva. Così che la spinta bipolare va sempre più costituendo la presa di distanza rispetto a valori e simboli che sembravano rocciosi e assoluti e che invece cominciano a vacillare. Come quelli che si celebrano in occasione delle feste civili

Feste civili e nuove interpretazioni del rapporto tra storia e presente

Non vorrei passare per un maniaco delle ricorrenze, con il rischio magari di trascurare altri fatti che meriterebbero una dovuta attenzione di questi tempi.

Ma l’infilata delle date più importanti del calendario civile italiano arriva, come tutti gli anni, in questo periodo e solleva discussioni, prese di posizione e omissioni che vanno al di là dei fatti storici.

Sembrano, insomma, riguardare anche nuove letture e nuove interpretazioni del rapporto tra storia e presente.

L’apertura della serie di date è la più cruciale, il 25 aprile. Giorno della liberazione – non solo quindi della libertà – di tutti, dell’Italia stessa, delle porte riaperte alla democrazia, della fine della dittatura e delle occupazioni, del ritorno del pluralismo politico e del diritto di pensiero e di parola.

Segue a ruota il primo maggio, dal 1891 festa, nel mondo, del lavoro e dei lavoratori. Festa dei diritti conquistati, della tutela della sicurezza, ma anche impegno per la crescita dell’occupazione e celebrazione valoriale dell’etica stessa del lavoro. Lavorare è un valore. Fare i parassiti no. E non riuscire a trovare un lavoro è ancora peggio.

Il trittico storico è completato dal 2 giugno, quest’anno 78° della scelta repubblicana come forma dello Stato da parte di una maggioranza netta degli italiani ma con una più che robusta minoranza a favore della monarchia e con il conseguente varo del cantiere di una costituzione repubblicana che vedrà la luce due anni dopo, il primo gennaio 1948.

E tra maggio e giugno 2024 cade anche il centenario del delitto Matteotti. Si voglia prendere il 30 maggio, data del celebre discorso alla Camera contro la violenza e i brogli elettorali fascisti, discorso coraggioso e solitario nella tenaglia tra i fascisti in aula e i massimalisti in maggioranza a sinistra. O si voglia prendere l’11 giugno, sempre del 1924, giorno del rapimento del deputato socialista e della sua vile uccisione. Molteplici valori in campo. Cento libri nuovi o rieditati in Italia. Un monito della storia. Una ricorrenza ineludibile.

Potremmo anche attaccarci – fuori da questa concentrazione primaverile – anche l’8 settembre, quello passato sette mesi fa. Non è festività. Ma resta una data storicamente forte. L’ottantesimo di una data simbolo della maggiore crisi dell’identità italiana in età contemporanea. Lo Stato disciolto dopo l’inevitabile armistizio e la caduta di Mussolini. Poi lo Stato fantoccio a Salò imposto dai nazisti. E quindi l’inevitabilità della guerra civile. Due anni terribili. Per alcuni la morte della Patria, per altri il cantiere della “nuova Patria”.

Se queste date dovessero cadere nella vita degli italiani oggi senza dibattito, senza verifica, esse verrebbero assimilate – magari in sottordine – alla Pasqua, al Natale, al Ferragosto, ai Santi patroni. Con languido senso religioso per i più, ma con forte rapporto con la “religione degli italiani”, quella di “fare i ponti” mentre per una minoranza restano feste religiose di profondità.

Anche queste feste civili arrivano almeno per la metà degli italiani come snodi di ponti allungati.

Non più e non tanto quindi come fondamenta delle radici anche laiche di una storia identitaria che tuttavia dal 1945 a oggi non scorre più lungo una traiettoria diciamo omogenea e unificata.

Quando dico “metà degli italiani” vado un po’ a sciabolate. Magari non sono preciso. Ma è grosso modo anche il dato dell’astensionismo elettorale in Italia (e in Europa). E – come ho detto altre volte – anche il dato dell’evasione fiscale. E ancora – anche qui più o meno – il dato dell’analfabetismo funzionale.

Metà – sempre all’ingrosso – non ci legge più significati e ci organizza la sagomatura (per tutti un po’ necessaria, mi rendo conto) di viaggi, viaggetti, scampagnate, fuga dalle città, eccetera. Ma l’altra metà non è compatta in ordine all’aspetto univoco dei significati di quelle date a cui prima ho accennato.

Con il 25 aprile entra in crisi anche il fondamento dell’antifascismo

Prendiamo una di quelle date, che è fondamento anche delle altre, il 25 aprile.

Il fondamento dell’antifascismo. Ci dice la rilevazione Demos di Ilvo Diamanti che il 28% degli italiani non riconosce oggi più questa espressione – l’antifascismo – come un tratto identitario esprimibile.

Cosa vuol dire questo?

Vuol dire forse che storici, politici, giornalisti, studiosi come filosofi e sociologi, per esempio, chi insomma racconta e commenta l’evoluzione dei fatti collettivi, non sanno più convincere tutti noi circa i valori originali connessi a questi eventi?

Può essere, certo, che ci siano ormai debolezze narrative, rappresentative (per questo ce ne occupiamo in questa rubrica che tratta della “rappresentazione”). Ma la spiegazione più profonda ce la stanno suggerendo anche storici più giovani, di nuovo conio, nel senso che si sentono più liberi di giudicare senza appartenere generazionalmente ai caratteri formativi della cosiddetta “prima Repubblica”.

In ogni caso per non dare valori troppo univoci ai dati demoscopici è giusto ricordare una valutazione che ricorre adesso in alcune analisi. Come scrive per esempio Giovanni Cominelli: “Non tutto l’antifascismo è democratico, non tutto l’anticomunismo è filo-fascista”.

E sempre Cominelli nel suo editoriale di questi giorni[1] ricorda che Augusto Barbera, attuale presidente della Corte Costituzionale, il 25 aprile del 2009 scrisse un articolo sul Secolo XIX, quotidiano di Genova, proponendo di riunificare le festività del 25 aprile e del 2 giugno (articolo che lo stesso giornale ha ripubblicato il 27 aprile appena passato) per non consegnare la celebrazione a questo o quel soggetto (ANPI o altri) ma alle istituzioni stesse nella lora piena ufficialità.

Proposta interessante, ma ricordandoci che il problema ora non è solo istituzionale ma anche della cultura civile di tutti gli italiani. Quindi anche problema “sociale”.

Dovendo tenere discorsi in pubblico in questo periodo attorno a queste date – da Milano a Roma, da Melfi a Modena – ho provato ad allargare lo sguardo a testi nuovi. E questo tema l’ho trovato trattato. Non posso fare qui una rassegna, ma riferisco il caso di un testo proprio centrato sull’argomento della trasformazione dei significati.  Argomento che potrebbe suscitare interesse in chi mi ascolta e in chi eventualmente in tempo successivo mi legge in forma scritta.

Tenendo in considerazione che questa più recente storiografia italiana ha comunque alle spalle una generazione di studiosi, tra cui non c’è uniformità su tutto. Penso per esempio ai significati del lungo lavoro di Renzo De Felice sul fascismo, grazie a cui c’erano state alcune rotture rispetto a una visione manichea circa il rapporto tra “patria e identità” nel Novecento.

Mi riferisco ora al saggio intitolato 25 aprile. La storia politica e civile di un giorno lungo ottant’anni. È ancora una data fondamentale per l’Italia di oggi? appena pubblicato per il Mulino da Luca Baldissara, che insegna Storia contemporanea a Bologna. L’ho visto e sentito parlare. Ha ancora i suoi capelli neri e folti. Ne deduco che non sia, per così dire, prossimo alla pensione. Ergo, una nuova generazione di storici. Ha scritto un libro dedicato ad approfondire la data più forte ma anche più divisiva di queste ricorrenze primaverili, appunto il 25 aprile.

Cosa sostiene?

Sostiene che la fine della prima Repubblica, a metà degli anni Novanta, viene sostituita da una seconda Repubblica (definizioni queste diciamo informali, giornalistiche, mai ufficiali) che ha compiuto una lenta ma inesorabile frantumazione valoriale di idee e principi scaturiti dalla Costituzione. Una specie di macerazione quasi trentennale, con inquinanti e decoloranti di varia natura (un populismo trasversale, per esempio, con il suo pressapochismo; la sua rissosità superficiale; il suo sostanziale disprezzo per lo studio e la conoscenza; eccetera).

Questa trasformazione ha portato a compimento il cambiamento dello schema interpretativo della storia contemporanea. Schema forse ora pronto per una terza Repubblica, che nessuno ha ancora dichiarato anche se qualcuno ha l’ardimento talvolta di annunciarla, comunque di pensarla.

È giusto che io dica che questa non è una recensione accurata del libro. Metto però l’accento sul fatto che l’autore non passa candidamente dal senso dell’unità antifascista del primo trentennio post-bellico alla attuale scomposizione di quell’unità oggi più evidente. Metà del testo è dedicato infatti agli anni ponte – dalla metà degli anni Settanta alla metà degli anni Novanta – in cui il progetto socialista di riforma e modernizzazione dello Stato e l’insofferenza per il tendenziale bipolarismo rappresentato dal progetto del compromesso storico tra PCI e DC portano a fare di Bettino Craxi – segretario del Partito Socialista dal 1976 e presidente del Consiglio per quattro anni, dal 1983 – un attore di rilievo della transizione.

Dice comunque Baldissara che, dopo questa transizione, con la metà degli anni Novanta, cade il paradigma di lettura del Novecento (e forse anche del legame con il Risorgimento) che si è chiamata al tempo “unità dell’arco costituzionale”.  E arriva lo schema che riorganizza la politica del presente in senso ampiamente bipolare. L’età del maggioritario. Che in un certo senso legittima anche il bi-radicalismo, cioè i fattori che stressano di più le due parti, in tempo di una comunicazione generalmente più veloce e più assertiva.

C’è chi pensa di raffreddare questa evoluzione immaginando nascosto tra i cespugli un “grande lago” chiamato centro. Ma finisce spesso che il grande lago rivela solo pozzanghere. Così che la spinta bipolare va sempre più costituendo la presa di distanza rispetto a valori e simboli che sembravano rocciosi e assoluti e che invece cominciano a vacillare. Anche a causa dell’assottigliamento anagrafico dei sostenitori del vecchio quadro e a causa della crescita dell’astensione che allontana dalla politica elettorati meno militanti e più di opinione.

Ci sono ovviamente anche altre concomitanze. I quotidiani scritti e stampati – pensati per interpretare i fatti – dimezzano le loro vendite. Si impone l’approccio veloce alle notizie. Scremate secondo una gerarchia allarmistica e in un certo senso anche banalizzante.  Si perdono nessi e sfumature. Alla fine, anche questo 25 aprile diventa una data che perde quasi tutta la sua sacralità. Figuriamoci il 2 giugno che si riferisce a significati per i più scontati.

Se ci si mette una compiuta trasformazione di quel servizio pubblico radiotelevisivo una volta centrato su una cultura professionale che potremmo chiamare di “pedagogia civile”, oggi troppo sollecitata a rendere servizi di pura visibilità della politica attuale, si capisce anche come sia venuto meno un fattore arterioso che agiva sui principi costituzionali di base.

Ma se vogliamo dirla tutta anche le università in cui i professori conservano la loro autonomia di pensiero e di didattica in aula ma nel quadro di una battaglia per le immatricolazioni in cui il cosiddetto “public engagement”, ammorbidito dalla crescente prudenza rispetto a tutto ciò che suona “politica”, serve più a farsi pubblicità sociale che a tenere desta la coscienza critica della società. E così la scuola – sopraffatta dallo svolgimento in tempo dei programmi annuali – fatica ad essere luogo di rilancio di quella che si chiamava una volta educazione civica.

Dico questo, cosciente di eccezioni che vedo, a volte anche meravigliose.

La politica stessa si propone più come tessitura del suo marketing elettorale, trasformando inesorabilmente i partiti politici in “comitati elettorali” non in radicamenti del dibattito civile. La tendenza ovviamente è globale non solo nostra.

Insomma, l’insieme dei fattori che davano significato alle narrazioni valoriali riguardanti l’unità dell’arco costituzionale sembra avere agito compiutamente per la decomposizione di quella missione.

È questa anche la conclusione del saggio di Luca Baldissara, che segnala la fine anche del patto politico, culturale e sociale che sosteneva quella tematica rispetto alla sua chiave di manutenzione: la lettura della storia. Al tempo un patto che comprendeva quasi i nove decimi delle forze politiche in campo.

Oggi si vede una tenuta morale e narrativa solo nell’opera condotta con poteri simbolici dal Presidente della Repubblica (si dovrebbe dire, da questo presidente della Repubblica, ultima espressione della generazione politica della prima Repubblica).

La domanda è naturale: chi, come, quando, con quale legittimità, potrebbe oggi rigenerare un patto – appunto sociale e culturale – in ordine agli elementi di fondo della nostra identità civile?

Con buona volontà, non riesco nemmeno a mettere qualche base per una risposta.

Chiarendo che rigenerare non vuol dire mettere indietro le lancette della storia. In ogni caso si pongono questioni di necessaria trasformazione.

Ma non posso omettere, in conclusione di questa riflessione di oggi, di percepire che – anche se distorto dai fatti interni, non affrontato sui temi delle poste in palio reali, insomma vittima dello stesso puro marketing elettorale che riguarda un po’ tutto – un fatto in agenda c’è a segnalare una pista del cantiere possibile. Mi riferisco alle elezioni europee.

Cioè – anche se di questo non si parla molto – il passaggio che mette in campo per cinque anni un ceto politico che deve presidiare il futuro istituzionale e quindi anche morale dell’Europa politica. Da cui dipende anche la maggioranza che si andrà formando in quel Parlamento.

Se gli orientamenti vedranno prevalere l’offerta politica nazionalista, saranno alzati i muri interni e ognuno sarà un po’ più vittima di derive già largamente segnalate. Ma se per caso la scelta vedesse prevalere la scommessa di un‘Europa forte e integrata, è evidente che la questione identitaria comune prenderebbe più vigore e avrebbe anche più bisogno di fondarsi sul patrimonio culturale e civile comune. Si creerebbe insomma un certo spirito costituente.

Non sono sicuro dei risultati, ma il tema contiene una possibilità di dare qualche risposta alla domanda posta.

 

[1] Giovanni Cominelli, “Resistenza e dintorni. La proposta di Barbera per il 25 aprile”, 30 aprile 2024.  Cf. https://www.santalessandro.org/2024/04/30/resistenza-e-dintorni-la-proposta-barbera-per-il-25-aprile/.

Stefano Rolando
Stefano Rolando
Insegna Comunicazione pubblica e politica all’Università IULM. Condirettore di Democrazia futura e membro del Comitato direttivo di Mondoperaio.

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