Negli ultimi 2 decenni 808 mila giovani hanno lasciato il Mezzogiorno
Un giornale italiano, anzi “il giornale italiano”, targato Milano ma con dorsi in tutti i territori e tra i più radicati quello del Mezzogiorno, parlo de Il Corriere della Sera, ha pubblicato un editoriale del suo vicedirettore,Daniele Manca, il cui titolo avrebbe potuto finire con un punto esclamativo, bastando solo quel dato a fare notizia. Dal 2002 al 2021 – dunque vent’anni – 808 mila under 35 hanno lasciato il Sud, compresi 263 mila laureati.
Ma questo dato, nello stesso articolo, è contenuto in un altro dato che mi sembra enorme. In questo arco di tempo, ma considerando ogni età, sono 2 milioni e mezzo di meridionali ad aver lasciato il Sud. L’81 per cento si è stabilito al Nord.
E poi nel testo altri dati sensibili. Per esempio migliaia di donne che hanno lasciato il lavoro per l’impossibilità di conciliarlo con gli impegni familiari. O, per fare un altro esempio, il rendimento medio in matematica tra gli studenti che penalizza ulteriormente la situazione meridionale: uno su due strappa appena la sufficienza nella materia (io settentrionale – preferisco dirlo – sarei stato, a buoni conti, uno di loro).
E ancora: quest’altro dato è riportato, di fonte Svimez. La crescita del 2023, ormai è cosa statisticamente chiusa: al Centro-Nord, dato modesto, +0,7 per cento. Al Sud, dato grave, +0,4 per cento. E non si può chiudere questo “zoom” senza citare il dato sull’occupazione, anche perché il dato medio italiano viene sbandierato con soddisfazione. Il dato medio europeo è 72,5 per cento. Quello del Sud Italia è dimezzato (31 per cento in Campania, 32 per cento in Puglia, eccetera).
Come si può capire questo genere di segnali non sono riferiti inerzialmente. Ma per suscitare anche nelle nostre piccole audience legittime reazioni critiche. Ora immagino alcuni riscontri “ufficiali”, fondati sul “sì, ma”: adesso ci sono risorse da investire; la realtà non è uniforme; non facciamo terrorismo territoriale. E altro.
Alimento quotidianamente una cartella di ritagli stampa con scritto in copertina Sud&Nord (è il tema di una sperimentazione che abbiamo avviato negli ultimi anni – parlo come presidente della Fondazione Nitti, radicata in Basilicata – proprio a Villa Nitti a Maratea. L’idea è di riprendere questi colloqui immaginando una riscossa culturale e civile attorno a questi dati. Ed è in questa cartellina che trovo altri spunti recenti.
Il rapporto dell’Istat
Mi limito a tre argomenti. Parto dall’Istat che quest’anno ha prodotto un rapporto intitolato “Migrazioni interne e internazionali della popolazione residente”. I trend riguardano i due anni precedenti (2021-2022) in cui i flussi migratori interni sono stati del 4 per cento e quelli dall’estero del 13 per cento. Si coglie che, a causa del Covid, l’emigrazione dei laureati italiani all’estero in questo tratto di tempo ha avuto una certa contrazione (4 mila casi in meno), ma il testo spiega che il trend reale è lungo e il saldo, nel lungo, è chiaro: chi va via è quasi il doppio di chi arriva. Nel decennio 2012-2021, l’Istat indica 337 mila giovani italiani espatriati, di cui 120 mila laureati.
La lentezza amministrativa nel processare l’attuabilità dei fondi per il Mezzogiorno
Ora succede che la battuta sulle risorse per affrontare queste criticità non è campata per aria, anche se ancora in larga parte è un annuncio. Bisogna sommare varie cose che dipendono da fonti diverse: PNRR, Fondi strutturali 2021-2027, REactEU, Fondo di coesione, Just Transition Fund.
Qui è Svimez a fare i conti e a dirci che ci sarebbero 220 miliardi aggiuntivi per fronteggiare problemi di cui i dati prima forniti sono una componente rivelatrice. Si parla di uno spettro di interventi spalmati su 6 anni, quindi fino al termine del decennio in corso.
Sullo sfondo di questo annuncio c’è una vecchia questione inquietante: il tema della lentezza amministrativa nel processare l’attuabilità di questi fondi, tema per il quale non basta certo un articolo sarebbe necessario un Giudizio Universale. Anche qui il divario si esprime con un dato che è quello riferito al delta del confronto Nord-Sud per tipologia media di processamento di questa materia: 300 giorni.
Insomma stiamo parlando di una questione lunga, vasta, profonda, irrisolta. Che non a caso da un secolo e mezzo, cioè dall’unità d’Italia, si chiama “questione meridionale”. O diversamente chiamata “dualismo tra Nord e Sud”. Le opinioni storicamente in campo si rinfacciano le accuse. Chi incolpa i Borbone, chi i Savoia. Chi incolpa i generali, chi i briganti. Chi incolpa le istituzioni, chi la società. Chi incolpa il legislatore, chi la classe dirigente. E anche gli scritti più recenti non privilegiano le stesse cause. Chi vede ormai le divaricazioni strutturali cresciute perché il divario è considerato quello del Nord e del Sud del mondo. Chi persiste a considerare la continuità di una malattia di cultura economica diffusa: puntare più sulla rendita che sulle attività produttive.
Un punto chiaro non rinunciamo ad esprimerlo. Mentre sul tema dell’unità vi è ormai – pur con molti distinguo – una certa idea comune che essa sia stata una condizione necessaria per dare basi allo sviluppo e alla modernizzazione, la somma delle criticità prima sommariamente indicate (demografiche, imprenditoriali, occupazionali, di qualità amministrativa, di velocità dei processi) messe a fronte del fiume di denaro che viene annunciato per il Mezzogiorno italiano, pongono l’evidente necessità di una politica regolatrice di prim’ordine che, siccome siamo fuori dalle condizioni di competenza che l’emergenza ha creato attorno alla figura di Mario Draghi, lasciano ora emergere diffusi e motivate inquietudini.
Nello schema della morsa delle statistiche su vecchi ritardi e della complessità di gestione delle ingenti risorse annunciate, si dovrebbe pensare a una sorta di convocazione degli Stati Generali della responsabilità. Ma fuori da ogni retorica, da ogni propaganda nazionale o regionale, soprattutto fuori da ogni contaminazione elettorale, mentre il 2024 contiene un rischio atomico di propagandismo attorno alle ormai imminenti elezioni europee. Proprio il riferimento a Francesco Saverio Nitti mi fa venire in mente la rarità di figure magari severe ma non faziose nell’affrontare questi nodi. Se doveva sollevare critiche alla società o all’impresa parimenti lo faceva con lo Stato che lui stesso impersonava. Diceva, per esempio, esattamente cento anni fa, da capo del Governo:
“L’Italia meridionale ha poca ricchezza e poca educazione industriale: pure lo Stato quando ha speso per essa, ha speso più per mantenere il parassitismo, che per combatterlo. Invece è l’educazione industriale che bisogna formare”.
Nel quadro del centenario del governo Nitti, il Senato ha pubblicato gli atti della celebrazione istituzionale, svolta l’8 novembre 2019, alla presenza del Capo dello Stato. Gli atti completi del Centenario (promosso dalla Fondazione “Francesco Saverio Nitti”, Comitato presieduto da Giuliano Amato), sono in via di pubblicazione presso ES-Editoriale Scientifica di Napoli.
La lucidità, la visione, la preparazione e la competenza gestionale della classe dirigente non sono più cose valutate da una maggioranza di cittadini che hanno invece scelto l’astensione. E quindi il nodo gordiano non sarà probabilmente sciolto dalle dinamiche democratiche. Creando quindi condizioni di pessimismo riguardo al dilemma qui posto (sempre secondo l’adagio secondo cui un pessimista è un ottimista ben informato.
Maratea, 17 dicembre 2023