Usa 2024 – 338 – Donald Trump non può accampare pretese di immunità per le accuse di interferenze sul risultato delle elezioni 2020: lo ha stabilito a Washington la giudice Tanya Chutkan, bocciando il tentativo dei legali dell’ex presidente di invalidare il procedimento per avere cercato di capovolgere l’esito del voto.
Il 6 gennaio 2021, Trump sobillò una sommossa popolare contro il Congresso, riunito in plenaria per ratificare la vittoria del candidato democratico Joe Biden nelle elezioni del 3 novembre 2020.
Per la Corte d’appello del Distretto di Columbia, dove sorge Washington, Trump “agì in quanto candidato presidenziale”, e non in quanto presidente, quando sollecitò i suoi sostenitori a marciare sul Campidoglio.
I presidenti statunitensi godono di immunità da cause civili solo nelle loro azioni ufficiali. Stando, invece, così le cose, Trump potrà ora essere oggetto di azioni legali civili da parte di quanti, parlamentari, funzionari, agenti delle forze dell’ordine o semplici cittadini, furono feriti o subirono danni nella sommossa.
La strategia dei legali di Trump pare simile anche in Georgia, dove c’è stata un’udienza preliminare nel giudizio sui tentativi dell’allora presidente di indurre le autorità dello Stato a rovesciare l’esito del voto a suo favore. Gli avvocati del magnate sostengono che il caso non abbia motivo di essere, perché coperto dalle tutele del primo emendamento – sulla libertà di espressione – e affermano che un processo a carico del loro assistito nelle fasi finali della campagna elettorale di Usa 2024 “sarebbe la più palese interferenza sul voto della storia americana”.
I legali hanno inoltre spiegato che, a loro avviso, se Trump vincesse le elezioni non potrebbe essere processato fino a quando non lascerà la Casa Bianca. Tattiche dilatorie messe in atto in tutte le sedi giudiziarie – e sono almeno cinque, in questo momento – che vedono il magnate imputato.
Usa 2024: la morte di Sandra Day O’Connor, prima donna giudice supremo
Sandra Day O’Connor, la prima donna a sedere come giudice nella Corte Suprema degli Stati Uniti, è morta venerdì 1 dicembre all’età di 93. Cresciuta in Arizona, O’Connor venne designata nel 1981 alla Corte Suprema da Ronald Reagan: confermandola, il Senato mise fine a 191 anni di giudici solo uomini.
In oltre un quarto di secolo nel ruolo, O’Connor ha esercito ampia influenza sulla Corte. Nel 1989, si era rifiutata di unirsi ai quattro saggi pronti a capovolgere la storica sentenza del 1973 che aveva legalizzato l’aborto negli Stati Uniti – sentenza poi rovesciata nel 2022, dalla Corte Suprema attuale a forte orientamento conservatore – .
Nel 1992, O’Connor aveva contribuito a creare una maggioranza nella Corte per ribadire i principi della sentenza del 1973. “Per alcuni di noi come individui l’aborto è un’offesa ai principi di base della moralità. Ma questo non può dettare la nostra decisione. Il nostro obbligo è definire la libertà per tutti, non di imporre il nostro codice morale”, aveva allora detto la giudice.
Nel 2000, aveva votato con la maggioranza della Corte Suprema per fermare il riconteggio manuale dei voti in Florida, concedendo di fatto la vittoria elettorale a George W. Bush contro Al Gore.
Nel 2018, O’Connor aveva annunciato di essere nelle “fasi iniziali” di un processo di Alzheimer e che non sarebbe più stata in grado di partecipare alla vita pubblica. Ragione per cui si dimise. Bush designo al suo posto il giudice Samuel Alito, che, l’anno scorso, tradendo il lascito della sua predecessora, contribuì a esprimere una maggioranza contraria alla sentenza del 1973 sull’aborto.
Attualmente, nella Corte Suprema degli Stati Uniti, siedono quattro donne su nove giudici: due bianche, una nera e una ispanica. Di qui a Usa 2024, la composizione, con sei giudici conservatori e tre progressisti, dovrebbe rimanere inalterata.