Amelia è mia figlia. Ha 28 anni. Vive a Milano, ma si è formata girando un po’ l’Europa. È laureata a Milano in Scienze Politiche e poi in Filosofia per le Scienze Sociali a Londra. Lavora con le lingue, con i libri, con le università, con la rete. Il tema dei femminicidi – oggetto di una forte mediatizzazione intorno alla tragica vicenda dell’omicidio di Giulia Cecchettin – appartiene alla sua advocacy da tempo. Per il film di Paola Cortellesi ha fatto una impetuosa campagna perché schiodassi da casa e andassi a vederlo. Abbiamo un sabato con un po’ di tempo insieme. Oggi è il giorno delle manifestazioni dappertutto per “Donne, diritti, libertà”. A Roma, a un passo da dove siamo, si apre una immensa manifestazione al Circo Massimo. Da Milano arriva l’immagine di Piazza Cordusio, traboccante. Questa la nostra conversazione. Una quindicina di brevi domande, fatte alla sprovvista. Ecco la sua versione.
Quale è stata nella tua vita la prima percezione del tema “femminicidio”?
Come ogni persona che vive in Italia, che segue le notizie dell’Italia, ho il ricordo nella mia adolescenza dell’intensificarsi di notizie di donne, spesso giovani e giovanissime donne, allora quasi coetanee, uccise da uomini, spesso loro compagni o ex compagni. Ricordo i casi di Yara Gambirasio e di Meredith Kercher. Diventate poi “avvincenti” storie di true crime, per podcast, inchieste, libri. Allora erano squarci permanenti dei TG che mi davano l’impressione che, là fuori, non c’era un mondo sicuro.
Come giudichi ora la percezione del tema tra le generazioni e tra le appartenenze di genere?
Mi sembra che, principalmente, si tratta di una questione di visibilità. Il problema in Italia non è nuovo. A partire dal caso del Circeo, dominano il panorama della cronaca con una intensificazione che allora era occasionale ed eclatante, ora è una raffica di casi arrivati quest’anno a più di cento. Non occupano più un angolo dell’informazione. Sono ovunque. Soprattutto in rete. Quella rete che ha permesso a questo argomento, anzi a questa realtà, di non poter essere più celata, confinata in qualche programmazione televisiva o della stampa quotidiana. Ma di prendere sempre più un posto “in prima pagina”. Ripetutamente. Così che basta aprire una pagina di un social e si vede questo tema dominante. Non credo sia una esasperazione. È il modo collettivo di una società di aprire gli occhi su un problema che da tempo si va radicando.
Posso aggiungere: e tra le diversità diciamo dei paesi europei? Hai studiato a Bucarest, a Milano, a Londra. Contesti diversi. Tra i giovani hai avvertito percezioni diverse del problema?
Questo risveglio sociale viaggia a tappe. Più che parlare di differenze tra vari contesti nazionali si deve capire che ora sono le donne che portano in evidenza questa materia, anche perché vogliono cogliere tutti gli aspetti, vogliono capire tutti gli aspetti. Naturalmente ci sono anche differenze generazionali. Una parte lo vive con un certo spirito di negazione. Lo vive trainata, consapevolmente o inconsapevolmente, da vecchie regole patriarcali delle nostre società. Così che chi pensa che non ci sia altro da esplorare, non va oltre ai fatti di cronaca. Casi, insomma. Per lo più credono che non possano riguardare loro. Anche se talvolta si vede che, in questi ambiti, c’è qualcuno che riconosce che la questioni li ha riguardati (o riguardate) direttamente ma che non avevano ben colto i contorni della vicenda.
Gli omicidi, al netto dei casi poi di suicidio, vengono quasi sempre individuati, processati, carcerati. La prospettiva catastrofica sembra non fermare l’istinto. Perché?
Mi sembra di riconoscere due motivazioni. Una riguarda il prima e il durante di questi episodi. L’altra il dopo. Parto dalla seconda che e più semplice da comprendere. Molti uomini sono ben consapevoli della realtà in cui viviamo, intesa come una realtà che li protegge, una realtà privilegiata. Mi riferisco soprattutto a uomini bianchi e uomini bianchi di potere. Si prenda il caso recentissimo di Oskar Pistorius, scarcerato dopo soli dieci anni per l’omicidio comprovato della ex-compagna. Dieci anni non sono così tanti per aver tolto la vita a un’altra persona. Insomma, c’è chi sa che il sistema è dalla propria parte, tanto da non essere così fermato dal rischio della pena. Circa il prima e il durante, l’omicidio altro non è che l’apice di un meccanismo manipolatorio. esercitato in realtà sin dal primo momento dell’approccio a una donna. L’omicidio non è altro che l’ultimo atto di tutta una serie di episodi in cui si esprime il non sopportare l’idea di una reale uguaglianza. Insomma, volere una disuguaglianza a proprio favore. L’insopportabilità dell’idea che la donna sia di più, voglia di più, conti di più. Così intollerabile che porta alcuni ad atti aggressivi estremi, cioè ad annientare questo fattore potenziale.
Non c’è territorio in Italia che non abbia un suo caso. Mi è venuto da dire che non è fatta solo di virtù l’unità nazionale. Come a dire che i dati socio-culturali locali, territoriali, sono ininfluenti.
Non è indifferente il contesto socio-culturale. Tenuto conto che l’Italia ha una mentalità misogina e machista diffusa. Che si è sviluppata nei secoli ovunque. L’ idea che la violenza di genere sia pervasiva solo in ambienti più poveri, con meno educazione, anche se statisticamente argomentabile, non è del tutto corretta. E’ sempre una questione di controllo e di potere. Voglio dire che in ambienti dove si esercita controllo e potere questi casi sono frequenti. Casi in cui la violenza non si esercita solo materialmente ma anche psicologicamente. C’è da vedere meglio il quadro statistico. Ma credo che ci sia una discrepanza nelle tipologie della violenza. Negli ambiti in cui c’è meno potere soprattutto economico sulle donne, credo che prevalga la violenza di tipo fisico. Mentre in ambiti in cui contano di più aspetti socioeconomici (e loro trasformazione concettuale) prevale invece la manipolazione e l’abuso psicologico. Insomma, l’ambiente conta, ma per differenziare soprattutto la tipologia della violenza.
Cosa ha di diverso il caso di Giulia, per avere avuto un trattamento mediatico così forte e dunque un impatto sull’opinione pubblica si direbbe “epocale”?
Credo che tutto sia riconducibile alla risposta data dalla sorella di Giulia, cioè da Elena Cecchettin. In questi casi di femminicidio è interessante la risposta che viene dai parenti, di entrambi i lati del contesto. Fanno parlare l’emotività, la rabbia, la disperazione per la perdita. Così che ascoltando questi messaggi si reagisce con speciale empatia. I segni di queste scie diventano insomma elementi più profondi dei fatti in sé. Offrono un immaginario complesso di chi vive dentro questo genere di storie. Spesso questa scia non è sufficiente per farci davvero arrabbiare, per produrre seri cambiamenti nelle persone. Voglio dire insomma che la risposta di Elena Cecchettin è stata estremamente lucida e piena di argomenti. La sua lettera al Corriere della Sera – con alcune successive spiegazioni – ha messo in luce cose importanti. Spiegando che queste persone non sono malate ma sono “figli sani del patriarcato”. Ha portato così questa parola nel mezzo del dibattito pubblico. Ha parlato di “cultura dello stupro”. Ha spiegato cosa ciò vuol dire. Il fatto che la sorella della vittima non voglia fare lei stessa la vittima, ma voglia portare il sistema a un cambiamento, è una cosa che non può lasciarci indifferenti. Sulla questione del femminicidio in Italia l’argomento è diventato parte dell’ordine del giorno. In giro per l’Europa ho visto in questi anni molti casi di abusi e di violenza, ma ho l’impressione che l’omicidio sia una prassi meno evidente. In Italia è così esteso che è impossibile chiudere gli occhi. La sensibilità cresce con il contesto. Sensibilità ai diritti umani colpiti che si coglie ormai dappertutto.
La forte mediatizzazione. È utile, è pedagogica, è incidente, ha lati criticabili?
Mi spiace ammettere che la risposta mediatica ha un po’ la stessa gravità della mancata risposta politica. Politica che dovrebbe dare strumenti adeguati di intervento e di contenimento. Mentre i media dovrebbero spiegare alle masse (appunto i mass media) i perché del cambiamento necessario. Non percepisco da parte dei media un intervento che veramente fronteggi questa necessità. Molta superficialità. Poco ascolto, al di là delle emotività immediate, del tema e delle cause che le situazioni contengono. Ci sono voci competenti che andrebbero molto più sollecitate. L’ effetto complessivo che si avverte è di un ulteriore silenziamento, pur nello spazio crescente della cronaca dei fatti. Ritorna spesso nei commenti la critica alle “esagerazioni” e si lavora poco alla spiegazione dei linguaggi necessari per comprendere a fondo i fenomeni.
Anche se devi ammettere che i media devono fare la cosa difficile di coinvolgere in qualche modo il mondo maschile in questo dibattito, che alla lunga può essere il tema decisivo per promuovere cambiamenti. E ciò dovrebbe comportare alcune accortezze forse non di tipo “militante”.
Certamente, esiste il tema di promuovere alleanze sociali che riguardano i generi nella loro complessità (dunque anche con attenzione alle minoranze) allo scopo di favorire coinvolgimenti nel cambiamento culturale che riguarda questa materia. Cosa ben diversa dal semplice sbandieramento di posizioni preconfezionate o ridotte a far da contorno ai fatti di cronaca e poi lasciate nel cassetto.
La rappresentazione artistica può in molte vicende sociali (come è avvenuto per la droga, piuttosto che per la disabilità) agevolare molto il salto qualitativo dell’opinione pubblica. È il caso del film di Paola Cortellesi?
Assolutamente sì. Credo che questo film sia arrivato non casualmente in un anno dominato dal cinema delle donne. Una palma d’oro a Cannes per la regia di Anatomia di una caduta di Justine Triet; l’estate dominata letteralmente dal successo mondiale di Greta Gerwig e la sua Barbie. Adesso Paola Cortellesi che sta in vetta al box office italiano con il suo magnifico. C’è ancora domani. Anche qui non casualmente questo film riscuote questo successo, nel momento storico di cui stiamo parlando. Come non è un caso che le sale siano piene e le piazze siano piene nelle manifestazioni civili contro i femminicidi. C’è commozione, ma c’è anche rabbia e solidarietà. Donne che dicono ad altre donne andate a vedere questo film. Lo dicono ad altre generazioni. Dicono di portare figli, figlie, mariti, parenti. Si, un vero caso di amplificazione qualitativa del dibattito. La rilevanza civica e civile del film, per la verità, è un secondo tema, il primo resta il trattamento della violenza ordinaria, che avviene con un trattamento artisticamente originale perché, come sostiene Paola Cortellesi, non bisogna più concentrarsi sulle modalità di questa violenza ma sul perché essa succede. E su cosa è necessario fare perché non succeda più.
È giusta – comunicativamente parlando, non tanto sulla pertinenza concettuale ma sulla popolarizzazione concettuale – la parola “patriarcato” per identificare questa criticità sociale?
La parola “patriarcato” ha avuto la funzione di spostarsi da un trattamento descrittivo di una realtà immutabile negli anni ad un trattamento verso una componente chiaramente negativa. Si sono capiti meglio i limiti finalmente di questa realtà. E comunque essa fa parte del vocabolario attivista non da oggi. E nemmeno da ieri. Ma da decenni. Da quella che viene considerata la seconda ondata del femminismo. Poi ha dominato il dibattito in occasione delle elezioni negli Stati Uniti d’America perse da Hillary Clinton contro Trump. Ci è stato fatto capire che il problema era proprio questo. Non era l’uomo, un uomo, pur trattandosi di Donald Trump. Era la struttura sociale che reggeva una dinamica di poteri, privilegi e benefici tutti insieme che tutelava gli uomini più delle donne. Vederla come una parola “radicale”, esagerata, fuorviante, a me sembra un sintomo di ignoranza. Al contrario mi sembra che essa faciliti il dibattito pubblico. Odiare gli uomini non ha senso. Alimenterebbe la violenza con altra violenza. Il problema non sono gli uomini, perché all’interno del patriarcato esistono anche uomini diversi. Dunque, la frase “non tutti gli uomini” non va intesa come un’accusa perentoria, ma come una descrizione preventiva della realtà, trattandosi di tutti gli uomini che seguono la scia di avere fatto o di poter eventualmente fare, in nome di quella parola, qualcosa di “abusivo” nella propria vita. Consapevolmente o meno. Un sistema che radica biologicamente e ideologicamente comportamenti. Per non dimenticare che il patriarcato – con tutti i suoi meccanismi e retaggi – contiene anche le donne. Donne che partecipano, più o meno coscientemente, volontariamente o attivamente, alla sua promozione e alla sua conservazione.
Cento casi all’anno (quest’anno, in Italia). Bastano per sostenere la generalizzazione del fenomeno?
Dire che sia una lettura superficiale mi sembra quasi un complimento. È una lettura violenta. Parliamo di 106 omicidi che non sono altro che la punta di una piramide di milioni di casi di donne che convivono o che hanno convissuto con una condizione di abuso. La punta di questo sistema sono i femminicidi. Connotare quei 106 casi con la parola “solo” denuncia un problema prima di tutto morale, perché un solo caso sarebbe troppo. La scia è lunga. Casi di abuso sessuale, ma anche di abuso psicologico. Casi di chi ha avuto almeno una volta nella vita esperienze del genere. Di lunga durata, di breve durata. Da adulte, da ragazze. E voglio aggiungere – anche per esperienza personale – di milioni di donne che vivono quotidianamente con speciali accortezze. Stare attente. Essendosi sentite dire tante volte che devono “stare attente” a evitare che le venga fatto qualcosa per “aver fatto qualcosa”. Come se quel “qualcosa” glielo dovesse fare un animale che non ragiona, privo di pensiero, che abita nella savana. E non un altro essere umano. Il problema è di capire cos’è la base di quella piramide. Milioni di donne che temono di uscire di casa. Di camminare per strada. Di divertirsi, perché va detto anche questo: il “divertimento” non può essere concepito solo, per una parte dell’umanità. La vita stessa non può essere concepita con limiti e asterischi per un genere umano rispetto a un altro.
In molti casi la conclusione fatale avviene per atteggiamenti titubanti, non netti anche da parte delle donne. Per quali motivi e quale segnale di una consapevolezza non diffusa viene in questi casi?
Riguardo alla questione del perché le donne rimangono agganciate e coinvolte in situazioni che poi precipitano è necessario capire che è molto difficile uscire da contesti in cui c’è un forte controllo psicologico esercitato sopra di loro. O un controllo economico. O un controllo che implica la vita di altre persone (figli, genitori, parenti). È molto difficile valutare, molto rischioso generalizzare e sbagliato giudicare. La questione della denuncia in una società “giusta” non dovrebbe nemmeno porsi. Perché i meccanismi di prevenzione direbbero essere in atto. Purtroppo, nel nostro Pese succedono cose come quella del post pubblicato di recente proprio dalla Polizia di stato con il messaggio preconfezionato contro la violenza delle donne. Post sotto al quale si sono presto accumulate migliaia di testimonianze nei commenti di casi casi di denunce fatte da donne alla Polizia di Stato, rischiando di persona, ma la cui denuncia non è stata accolta. A volte anche derisa. A volte, persino, le violenze sono arrivate dagli enti che dovevano tutelare. In molti casi c’è chi sente qualcosa, avverte qualcosa, denuncia qualcosa. Ma senza seguito. Una cosa grave. Insomma, gli enti che hanno a che fare con la prevenzione dovrebbero fare un profondo esame delle situazioni e correggere le regole.
Capisco che l’attivismo sia una componente necessaria per l’accelerazione del processo. Ma come evitare che sia anche la leva di una contro-radicalizzazione?
L’attivismo può essere esercitato in vari modi. C’è grande dibattito sui modi giusti o sbagliati di fare attivismo. Anch’io personalmente vivo il tema di non fare abbastanza. Di non spiegare abbastanza. Si, perché si è un po’ creata una sovra-tematica curiosa: o tutto o niente. Qui credo proprio fermamente che vada rivalutata la via di mezzo. L’attivismo può prendere forme diverse. Ma quello che penso – a proposito del rischio della contro-radicalizzazione – è che malgrado tutto l’attivismo debba in generale essere radicale. La rabbia è giustificata. Non esprimerla è una censura, il problema persiste ed è più grave. Tutelare è necessario. Dopo di che le forme sono tante. Scrivere. Andare in piazza. Semplicemente parlarne. In Italia lo si fa poco ma in Inghilterra e negli Stati Uniti d’America si scrive ai propri rappresentanti nelle istituzioni per esercitare pressioni. Contano i comportamenti personali nelle famiglie. Correggere linguaggi e comportamenti di padri, fidanzati, amici, professori. Credo che oggi il miglior femminismo sia condizione di saperi e di conoscenze. Non la gara di chi ha letto di più o sa di più. Conta mettere a disposizione di chi sa meno concetti adatti a comprendere meglio l’evoluzione del problema. Tramandarsi gli insegnamenti. Soprattutto l’attivismo deve contenere l’intenzione di volerlo rendere inclusivo e intersezionale, deve capire i contesti che limitano e condizionano e accendere i riflettori sulle tematiche meno accessibili per il grande pubblico e meno “appetibili” per i grandi media (il pensiero va alle donne e ai bambini palestinesi sotto attacco quotidiano, così come agli innumerevoli casi di crimini di natura transfobica, con l’Italia portatrice del primato europeo in questo riguardo).Aggiungo che assumere atteggiamenti bellicosi, che sono giustificati per rabbie giustificate, non è una divisa obbligatoria e permanente.
Si parla di aprire uno spazio educativo permanente nelle scuole. Anzi il Parlamento ha votato una ipotesi in forma bipartisan. Come dovrebbe essere questa “pedagogia”?
Ma, utopicamente o realisticamente? Dico la verità: realisticamente non mi aspetto niente. Non mi aspetto niente – sulla linea delle cose dette – da un governo (che esprime una maggioranza condizionante) con una capa del governo che, pur se donna, rifiuta di comprendere e identificarsi nel problema. Lei stessa esprime una femminilità molto in linea con il patriarcato. Si definisce “donna, mamma, cristiana” nel quadro di quello spirito di tradizione che il patriarcato incornicia. Sono molti i segnali di chi non ha provato davvero a comprendere in altro modo la realtà. E così stando le cose non mi aspetto niente. Naturalmente vorrei potermi aspettare segnali di trasformazione. Perché serve una maggiore e migliore informazione e discussione. Serve la valorizzazione di chi ha pensato e scritto sulla materia, a partire dalle scuole. Serve l’accoglienza di riconoscere che si tratta sapere di una crucialità che non sopporta altra strumentalizzazione.
26 novembre 2023