Ormai Donald Trump ha capito l’antifona: non va ai dibattiti fra gli aspiranti alla nomination, ma va alle udienze dei suoi processi, che diventano palcoscenici dei suoi show mediatici o semplicemente passerelle dove esibirsi come martire, vittima di una giustizia ‘politica’, che vuole impedirgli il ritorno alla Casa Bianca.
E’ proprio quello che è avvenuto ieri, a New York, all’udienza per la causa civile sui valori gonfiati della sua holding, la Trump Organization, dove è imputato con due suoi figli, Donald jr e Eric.
L’ex presidente, interrogato per cinque ore, ha battagliato con il giudice e l’accusa e, fuori dall’aula, ha poi definito il caso una “truffa”: “non avrebbe mai dovuto essere istruito” e “dovrebbe essere subito archiviato”. Il magnate ha rivendicato la correttezza del suo operato e denigrato i testi d’accusa, come il suo ex avvocato Michael Cohen, che “non ha alcuna credibilità”.
Giudice e accusa hanno però tenuto botta. “Oggi Trump si è lamentato, ha urlato insulti… Ma non mi faccio intimidire: la giustizia prevarrà”, dice la procuratrice generale di New York Letitia James, che funge da pm. “Le prove mostrano che Trump ha gonfiato il valore di suoi beni e si è arricchito illecitamente, con la frode: i numeri non mentono”.
Donald jt ed Eric sono già stati sentiti. Domani sarà la volta di Ivanka, la figlia prediletta, che non è imputata. Giovedì sarà dedicato alle mozioni delle parti, prima della conclusione del processo.
Trump a giudizio: l’imputato, il giudice, la procuratrice
La deposizione di Trump è stata contrassegnata da attacchi personali al giudice della Corte Suprema di New York Arthur Engoron, che il magnate sostiene essere prevenuto nei suoi confronti – ”Lei si pronuncia sempre contro di me perché è così” – e della procuratrice generale, che ha deriso come “hacker politico”.
Trump era un fiume in piena: “guerra politica”, “interferenza elettorale”, un “processo vergognoso” da “Paese del Terzo Mondo o da repubblica delle banane”, portato avanti da un un giudice “fazioso e squilibrato” e da una procuratrice (afroamericana) “razzista e corrotta” al soldo di dem e Soros.
L’ex presidente non ha del resto fatto mistero che le sue risposte non erano tanto rivolte al giudice che deciderà dell’esito del processo, e che potrebbe metterlo al bando dal mondo dell’immobiliare, ma erano politiche, pensate per gli altri processi che l’attendono e per gli appelli che potranno derivarne, ma soprattutto per la campagna presidenziale..
A più riprese, il giudice ha cercato di mettere ordine nella tortuosa deposizione, ingiungendogli anche di rispondere alle domande senza divagare. A un certo punto, s’è rivolto al legale di Trump, chiedendogli di controllare il suo cliente: “Questo non è un comizio , questa è un’aula di giustizia”.
Il magnate ha comunque riconosciuto di avere avuto un ruolo nella valutazione dei suoi averi, contraddicendo in qualche misura la linea difensiva sua e dei suoi avvocati di stare alla larga dal nocciolo del problema.
Il giudice ha già deciso che le dichiarazioni finanziarie della Trump Organization erano fraudolente: per l’ex presidente, si tratta ora di cercare di evitare o contenere le pene, fra cui una potenziale multa da 250 milioni di dollari.
Era la prima volta, fra tutte le battaglie legali che si trova a combattere, che il magnate doveva affrontare un interrogatorio così lungo. Ed era pure la prima volta da oltre un secolo che un ex presidente sedeva sul banco degli imputati ed era chiamato a testimoniare sotto giuramento: l’ultimo era stato Theodore Roosevelt, nel 1915, in un processo per diffamazione.