Israele avverte l’Onu che la popolazione di Gaza Nord, oltre un milione di persone, deve evacuare entro 24 ore: una mossa che, per le Nazioni Unite, avrebbe “conseguenze umanitarie devastanti” e che sembra preludere a un attacco di terra nella Striscia dove continuano senza tregua raid e bombardamenti come ritorsione agli attacchi terroristici letali dello scorso fine settimana. Hamas, invece, invita i palestinesi a restare nelle loro case: la loro presenza fa da scudo a un attacco, o almeno lo intralcia.
In un’aritmetica dell’orrore, le vittime civili palestinesi, quasi 1500, hanno superato le israeliane, circa 1300. Ne restano fuori i 1500 terroristi palestinesi ‘neutralizzati’ dai militari israeliani. E ci sono gli ostaggi, un numero imprecisato, forse fino a 150. Il rischio di escalation è evidenziato dagli scambi di tiri avvenuti nel Nord di Israele con miliziani sciiti in Libano e in Siria e dai raid condotti la scorsa notte dall’aviazione israeliana contro aeroporti e obiettivi nei due Paesi.
La diplomazia internazionale è impegnata su un doppio fronte: testimoniare solidarietà e vicinanza a Israele, dov’è stato il segretario di Stato Usa Antony Blinken e dove sono oggi leader dell’Ue; e lavorare per ottenere la liberazione degli ostaggi ed evitare una escalation che infiammi ancor più tutta la Regione. In questa fase, sono protagonisti, fra gli altri, Egitto, Qatar, Turchia; e ritrova voce e volto, pur sbiaditi, l’Autorità nazionale palestinese (Anp), che governa la CisGiordania, il cui presidente Abu Mazen era stato quasi assente per oltre 72 ore.
Un attivismo che stride con la distrazione di anni, quasi l’indifferenza degli ultimi 18 mesi, quando l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia ha catalizzato l’attenzione occidentale. Ma il conflitto tra israeliani e palestinesi in Medio Oriente, ora divenuto la guerra tra Israele e Hamas, non ha mai trovato pace e ha sempre continuato a covare sotto la cenere dello strabismo internazionale, alimentato dal mancato rispetto d’accordi e d’impegni.
Guerra Israele-Hamas: il fronte umanitario
Le agenzie dell’Onu presenti nella Striscia di Gaza prospettano il rischio di una crisi umanitaria: mancano i medicinali, oltre ad acqua, cibo, luce, energia. Si pensa di creare corridoi umanitari: l’opzione non pare imminente. I ministri degli Esteri dei 27 non cancellano l’aiuto umanitario, ma s’impegnano a rivedere i fondi per i palestinesi che Hamas potrebbe utilizzare in modo improprio.
Stati Uniti e Qatar concordano di bloccare l’accesso dell’Iran al 6 miliardi di dollari ‘scongelati’ nell’ambito di uno scambio di prigionieri tra Teheran e Washington, in attesa che vengano accertate eventuali responsabilità iraniane nell’attacco terroristico del 7 ottobre. Il blocco segue aspre critiche dell’opposizione repubblicana all’Amministrazione Biden, perché c’è il sospetto che Teheran abbia finanziato e sostenuto l’operazione terroristica.
Israele – palestinesi: le tappe di una pace mai realizzata
Israele non aveva più visto nulla di simile agli orrori del 7 ottobre da quando, nel 1948, si combatté la Guerra d’Indipendenza: né la Guerra dei Sei Giorni nel 1967, né la Guerra del Kippur nel 1973 – della quale cadeva l’anniversario il giorno dell’attacco terroristico – s’erano sviluppate sul territorio dello Stato ebraico.
Dopo quei conflitti, la storia dei rapporti fra israeliani e arabi e poi fra israeliani e palestinesi è fatta di accordi che hanno portato grandi speranze e che non sono mai stati rispettati; di lunghi momenti insurrezionali – le Intifade -; di azioni militari israeliane limitate nel tempo ma cruente; di attentati sempre seguiti da rappresaglie talora sproporzionate nel numero delle vittime.
Gli accordi di Camp David, firmati dal presidente egiziano Anwar al-Sadat e dal premier israeliano Menachem Begin il 17 settembre 1978, dopo dodici giorni di negoziati segreti a Camp David, sotto gli auspici del presidente Usa Jimmy Carter, portarono al trattato di pace israelo-egiziano del 1979, il primo del genere fra Israele e un Paese arabo. Valsero il Nobel per la Pace a Sadat e Begin. Ma, tre anni dopo, costarono la vita a Sadat, ucciso al Cairo il 6 ottobre 1981 da un integralista islamico.
Quindici anni più tardi, la mediazione di un altro presidente Usa democratico, Bill Clinton, portò agli accordi di Oslo, una serie di intese concluse il 20 agosto 1993 e ratificate il 13 settembre: erano il frutto di negoziati tra il governo israeliano e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, l’Olp (che agiva in rappresentanza del popolo palestinese), nel quadro di un processo di pace che mirava a superare il conflitto arabo-israeliano e sanciva il principio dei due Stati indipendenti, ciascuno sicuro all’interno delle proprie frontiere.
Protagonisti di quella fase, accanto a Clinton, erano il premier israeliano Yitzhak Rabin e il ministro degli Esteri Shimon Peres e il presidente dell’Olp Yasser Arafat, tutti insigniti del Nobel per la Pace. Questa volta, fu un leader israeliano, Rabin, a pagare con la vita l’intesa: un integralista ebreo lo uccise il 4 novembre 1995.
Gli accordi di Oslo, perfezionati nel 1995 dai cosiddetti Oslo 2, portarono a istituire l’Autorità Nazionale Palestinese, con il compito di autogovernare, in modo limitato, parte della Cisgiordania e la Striscia di Gaza – poi passata, tra il 2006 e il 2007, sotto il controllo di Hamas -; e riconoscevano l’Olp come interlocutore di Israele nelle trattative sulle questioni in sospeso.
I negoziati proseguirono, portando nel 1995 ai cosiddetti accordi di Oslo 2, e suscitarono speranze di normalizzazione delle relazioni di Israele con il Mondo arabo. Ma, in realtà, il conflitto non è stato mai risolto, complice l’intersecarsi, a partire dal XX Secolo, della guerra al terrorismo innescata dall’11 Settembre 2001, e la soluzione dei due Stati non è mai stata attuata. Le questioni più importanti ancora irrisolte riguardano i confini di Israele e Palestina, gli insediamenti israeliani, la presenza militare di Israele nei Territori palestinesi; e la situazione a Gaza, ormai incancrenitasi.
Tra il 2017 e il 2020, la presidenza Usa di Donald Trump segnò un cambio di tendenza, indicando una via ‘economica’ alla pace di Israele con i Paesi arabi e tralasciando la questione palestinese. Sono i cosiddetti ‘accordi di Abramo’, dal nome del profeta condiviso dalle religioni ebraica e musulmana, che hanno finora coinvolto Emirati arabi uniti, Bahrein, Sudan e Marocco e che, fino alla crisi attuale, stavano vedendo un riavvicinamento significativo tra Israele e Arabia saudita.
Gli ‘accordi di Abramo’ hanno segnato la prima normalizzazione delle relazioni tra un Paese arabo e Israele dopo la pace con l’Egitto nel 1979 e quella con la Giordania nel 1994. L’Amministrazione Trump aveva archiviato l’ipotesi dei due Stati; l’Amministrazione Biden l’ha invece ripristinata, senza però fare passi avanti in quella direzione. Ora, però, la deflagrazione della guerra tra Israele e Hamas rischia di squassare tutto il Medio Oriente e non solo.
Mentre Netanyahu auspica “di schiacciare e di distruggere” Hamas, un’analisi dell’Ap afferma che, nelle tre decadi intercorse dagli accordi di Oslo e, in realtà, fin dalla sua fondazione, Hamas ha sempre avuto la stessa “brutale idea” di vittoria e ha attuato “una strategia coerentemente violenta”, per rovesciare il controllo di Israele sulla Striscia e nei Territori. La linea di Hamas ha segnato “costanti progressi”, nonostante le enormi sofferenze inferte dal conflitto alle due parti.