36 ore che potevano cambiare la Russia. E che forse l’hanno cambiata. Ma ancora non lo sappiamo. Anzi, per il momento fatichiamo a capire che cos’è davvero successo. Apparentemente, i fatti sono che Evgeni Prighozin, capo della compagnia di mercenari Wagner, gli eroi per i russi delle battaglie di Mariupol e Bakhmut, ha lanciato i suoi uomini in una rivolta armata contro il potere costituito ed è giunto con i suoi carri a 200 chilometri da Mosca, dopo avere preso, senza colpo ferire, una città di oltre un milione di abitanti, Rostov-sul-Don.
Bollato come traditore dal presidente russo Vladimir Putin, cui era sempre stato fedele, Prigozhin, dopo un negoziato condotto dal presidente bielorusso Aleksandr Lukashenko, uno che non muove foglia se Putin non vuole, ha ordinato ai suoi uomini, la cui avanzata non aveva trovato opposizione né di terra né aerea, di fare dietro fronte e di rientrare nei loro acquartieramenti in Ucraina.
Che cosa ha ottenuto in cambio? Per sé, l’esilio in Bielorussia (o forse altrove) e l’immunità: non dovrà rispondere delle proprie azioni, nonostante Putin avesse pubblicamente assicurato il contrario. Per i suoi uomini, l’immunità e forse un qualche soldo extra; quelli che vorranno saranno inglobati nell’esercito russo, prospettiva respinta fino a venerdì 23 giugno – anzi, un ‘casus belli’ -. Tutto qui?, dopo tanto rumore di putsch.
Molte le cose non chiare. Non si sa dove sia Prigozhin, che ha ragioni da vendere a non farsi trovare: per lui, il rischio di bere un te indigesto o di inciampare in un ombrello appuntito è altissimo. Ma anche sulla location di Putin, nelle ore più calde della sommossa, vi sono state indicazioni contraddittorie, anche se la versione ufficiale l’ha sempre voluto al Cremlino. Quanto ai Wagner, il loro quartier generale a San Pietroburgo è stato perquisito: la versione ufficiale è che sono state trovate ingenti quantità di denaro, lingotti d’oro, qualche chilo di polvere bianca che potrebbe essere droga.
Se le cose stanno davvero così, ci perdono tutti: Prigozhin, alla macchia, capitano di ventura senza più esercito; e pure Putin, la cui autorità e la cui aura sono state intaccate dalla insubordinazione d’un suo sodale e dal sostegno popolare che una parte della popolazione di Rostov-sul-Don ha dato agli ‘ammutinati’.
Le 36 ore trascorse tra venerdì e sabato sono state fra le più convulse della Russia moderna, un po’ come il putsch di agosto del 1991, quando i carri che avevano occupato Mosca furono neutralizzati dal coraggio di un vigoroso Boris Ieltsin salito su di essi a parlare con i soldati nelle torrette. Dopo giorni di fermento, Prigozhin ha sconfessato le ragioni addette da Putin per invadere l’Ucraina (e che lui aveva sempre avallate), ha dichiarato guerra al Ministero della Difesa russo – i suoi ‘nemici’ erano da sempre il ministro della Difesa Sergej Shoigu e il capo di Stato Maggiore, generale Valerij Vasilievic Gerasimov -, ha fatto uscire i suoi uomini dall’Ucraina, ha preso un centro di comando nevralgico nel sud della Russia, è avanzato verso Mosca. Tutto è praticamente avvenuto senza spargimento di sangue: si parla di un elicottero, o di un aereo, caduto, ma non è chiaro se sia stato abbattuto e da chi.
Si ignorano i termini dell’accordo che ha posto termine all’azione armata. I miliziani del Wagner sono mercenari: si battono per la paga, non per un ideale; e forse il Gruppo continuerà a operare, come ha finora fatto nell’interesse di Mosca, sugli altri fronti dov’è impegnato, in Siria, in Libia, nell’Africa sub-sahariana. In Ucraina, specie a Bakhmut, i Wagner, la cui consistenza – si dice – avrebbe toccato i 25 mila effettivi, hanno perso molti uomini e, per integrare i ranghi, hanno dovuto arruolato detenuti che hanno preferito la prima linea al carcere.
Nel dopo sommossa, spuntano come funghi i Dottor Stranamore che descrivono scenari improbabili se non impossibili. Mentre a Kiev il presidente ucraino Volodymyr Zelensky e il suo staff valutano come trarre vantaggio dal momento di debolezza, o almeno di sbandamento, russo, c’è chi ipotizza che i Wagner si trasferiscano in Bielorussia per attaccare da Nord l’Ucraina e aprire un nuovo fronte che freni la controffensiva. Come se ciò potesse avvenire da un giorno all’altro e di sorpresa, mentre tutti gli ammassamenti di truppe richiedono tempo e preparazioni logistiche, oltre a svolgersi sotto gli occhi dei satelliti.
Secondo l’Istituto per lo studio della guerra (Isw), un centro di ricerca Usa anti-russo e pro-ucraino, l’ammutinamento di Prigozhin è fallito, ma il Cremlino si trova ora ad affrontare una situazione “profondamente instabile”: la “soluzione a breve termine profilatasi danneggia in modo sostanziale” il potere di Putin e lo sforzo bellico russo in Ucraina. “La ribellione ha messo a nudo la debolezza delle forze di sicurezza russe e ha mostrato l’incapacità di Putin d’usare la forza in modo tempestivo per respingere una minaccia interna, erodendo ulteriormente il suo controllo sugli apparati militari”.
Il New York Times scrive che l’intelligence statunitense sapeva dalla metà di giugno che Prigozhin stava progettando un’operazione in Russia e aveva comunicato all’Amministrazione Biden dubbi sulla capacità di Putin di restare al potere e preoccupazioni per l’instabilità che poteva derivare dall’insurrezione di Prigozhin, anche per quanto riguarda il controllo dell’arsenale nucleare russo. E’ però strano che l’intelligence russa non avesse avuto sentori analoghi e ignorasse le trame di Prigozhin, il cui brusco voltafaccia sulle ragioni della guerra potrebbe essere stato ‘incoraggiato’ – è una dei tanti dubbi – da qualche attore esterno; e che forse – è un altro rovello – sperava di disporre di qualche spalla interna.
Putin, che aveva proclamato di volere schiacciare militarmente la rivolta, non ha sparato un colpo contro quelli che la popolazione russa di sentimenti nazionalisti e favorevole all’ ‘operazione militare speciale’ in Ucraina percepisce come ‘eroi’. E c’è anzi chi ipotizza che il ‘cuoco di Putin’, 62 anni, sanguigno e irascibile, ma vicinissimo al leader, un passato in carcere, poi imprenditore nella ristorazione a San Pietroburgo, prima di divenire ‘imprenditore di guerra’, possa vedere cadere metaforicamente le teste del ministro Shoigu e del generale Gerasimov, i bersagli delle sue critiche circa le scelte strategiche russe e l’inadeguatezza dei rifornimenti alle truppe al fronte.
Di certo, la crisi s’è risolta nel giro di una giornata: lo spettro di una guerra civile è stato derubricato a tentato putsch, una ‘guerra del soldo’ che si vede spesso in Africa, dove i militari insorgono contro i governi che non li pagano. Eppure, sabato a metà mattina la guerra civile pareva dichiarata. “Uno dei convogli del Gruppo Wagner è stato attaccato nella regione di Voronezh… L’aviazione è all’opera… La guerra civile è ufficialmente iniziata” recitava un comunicato su un canale Telegram del Gruppo Wagner, che affermava di controllare i siti militari e un aeroporto di Rostov-sul-Don.
La reazione di Putin era stata un video-messaggio alla nazione: “Un colpo di pugnale alle spalle, alle nostre truppe e alla Russia – aveva dichiarato, senza nominare mai il suo nemico –. Tutti coloro che hanno scelto la via del tradimento saranno puniti e saranno ritenuti responsabili”. E il patriarca della Chiesa ortodossa russa, Kirill, lanciava un appello all’unità di fronte alla minaccia comune, cioè l’Occidente. A Mosca, forze di sicurezza militari e di polizia creavano check-point e presidiavano edifici pubblici, mentre la tv di Stato trasmetteva un documentario su Berlusconi.
Le autorità russe riconoscevano che la situazione era difficile. Informazioni contradditorie s’intrecciavano con smentite spesso aleatorie. Un video mostrava Prigozhin mentre incontrava militari e funzionari russi e diceva loro di volere incontrare Putin e Shoigu. Il sindaco della capitale Sergej Sobyanin invitava i cittadini a restare in casa, a non prendere l’auto e considerare lunedì, cioè oggi, una giornata di vacanza – impegno mantenuto, anche se sabato sera l’allarme era già rientrato -. Azioni antiterrorismo sono state messe in atto in tutta la Russia.
Di certo, l’Occidente misurava in quelle ore i rischi connessi all’instabilità della Russia, mentre Zelensky poteva gongolare per la debolezza della struttura di potere a Mosca. Il presidente Usa Joe Biden consultava telefonicamente i maggiori alleati (fra di essi, non l’Italia), il segretario di Stato Usa Antony Blinken faceva lo stesso con i colleghi del G7; l’Unione europea scambiava informazioni e coordinava le reazioni – oggi c’è una riunione a Lussemburgo dei ministri degli Esteri dei 27 -.
Concorde la linea: una vicenda interna russa, in cui non c’è motivo di interferire. Ma il brivido era forte: per l’Occidente, Putin è un criminale di guerra, ma se il suo posto fosse preso da un capitano di ventura come Prigozhin o da qualche altro avventuriero la sicurezza globale non sarebbe certo rafforzata. Anche per questo, la Cina, l’Iran e pure la Turchia, Paese Nato, hanno espresso sostegno a Putin di fronte alla minaccia interna.