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Meloni: la comunicazione della premier, una tesi di Franca Venditti

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Introduzione alla tesi di Franca Venditti sulla comunicazione di Giorgia Meloni, ci cui sono stato correlatore – relatrice la prof.ssa Maria Cristina Antonucci -, pubblicata a presentata a Bassiano il 27/05/2023.

Nella Prima Repubblica, si diceva che “il potere logora chi non ce l’ha” – anzi, lo diceva Giulio Andreotti, mutuando l’espressione da un celebre politico e diplomatico francese del XVIII secolo, Charles Maurice de Talleyrand, e facendola propria -. E, infatti, la Prima Repubblica furono 45 anni di sostanziale stabilità, pur nella quasi frenetica successione di presidenti del Consiglio e di governi: 48 esecutivi e 17 premier dal ’46 al ’92, durata media inferiore a un anno.

Nella Seconda Repubblica, ammesso che sia mai cominciata e/o che non sia già finita, l’aforisma va, invece, rovesciato: “il potere logora chi ce l’ha”. Tutte le elezioni hanno bocciato il passato prossimo, cioè chi stava al governo, e premiato le promesse del simil-nuovo, cioè di chi stava all’opposizione; inoltre, tutte le elezioni – tranne quelle del 2008, prima di quelle del 2022 – hanno creato i presupposti per governi instabili e coalizioni improbabili. Nel 2008, fu la crisi finanziaria globale, a mettere a nudo l’incompetenza di chi guidava il Paese e a rendere necessario il ricorso a soluzioni di governo tecniche, capaci di scelte dolorose, impopolari, elettoralmente penalizzanti, ma in quel momento necessarie.

In molti sensi, non in tutti, il 2022, le politiche, Giorgia Meloni, sono diversi dai precedenti: diversi (e unici, finora) i protagonisti; simili le circostanze. La vittoria del partito del presidente del Consiglio – prima donna in tale ruolo nella storia d’Italia: come in Gran Bretagna e in Germania, le donne vanno al potere solo se conservatrici – premia l’opposizione al governo caravanserraglio di Mario Draghi. Per tenere insieme la sua maggioranza inutilmente ampia e letalmente composita dove lupi sovranisti si travestivano per opportunismo da agnelli europeisti, il banchiere super-tecnico annacquava le scelte e perdeva autorevolezza e credibilità. Mentre i cittadini arrancavano, provati dalla pandemia – i lockdown, ma soprattutto l’impatto economico – e investiti dallo stress della guerra – più i riflessi sull’inflazione e sul tenore di vita che il dramma umano, ché quello, finché è altrui, siamo in grado di uscirne lavandoci la coscienza con un’offerta alla raccolta di fondi per gli aiuti umanitari -.

Gli italiani ‘brava gente’ sono allergici alla competenza e inclini al populismo?, guardano più alla forma che alla sostanza?, per loro, quel che conta è come il messaggio è confezionato e presentato più che il contenuto? Il dubbio può venire, leggendo la bella tesi di Franca Venditti, che analizza le armi vincenti – mediatiche e comunicative – di Meloni nella campagna elettorale e le confronta con le armi spuntate dei suoi rivali. Ma è fenomeno e interrogativo che accompagna altre campagne e altri Paesi, dagli Stati Uniti di Donald Trump alla Gran Bretagna di Boris Johnson a esperienze più lontane, ma estremamente più inquietanti, le Filippine di Rodrigo Duterte o il Brasile di Jair Messias Bolsonaro.

La scelta di Meloni, che la professoressa Maria Cristina Antonucci evidenzia nella sua articolata, acuta e chiarissima post-fazione, di puntare sul binomio ‘territori – social’, tralasciando la televisione, sarà forse apparsa spericolata ai guru della comunicazione tradizionali, è sicuramente stata coraggiosa e soprattutto è stata vincente. Meloni avrà anche calcolato che la tv le poteva essere ostile in alcune sue componenti (RaiUno, la cui vocazione governativa tanto l’avrebbe penalizzata prima del voto quanto ora la assiste dopo il voto, e soprattutto RaiTre e La7) o falsamente amica nell’area Mediaset, lasciandole come unico terreno franco, però in condivisione, RaiDue. Ma la leader di Fratelli d’Italia, un partito che s’identifica in lei, non avendo altre figure del suo richiamo, ha certo capito che i suoi elettori tradizionali e potenziali, contestatori per principio o per delusione dei poteri costituiti, politici, economici, mediatici, si abbeveravano più ai social che agli organi di stampa tradizionali che, ai loro occhi e non solo, sanno di establishment.

Forse, in virtù dell’aforisma della Seconda Repubblica, Meloni e Fratelli d’Italia avrebbero comunque vinto, perché l’arma vincente l’avevano già brandita, restando pervicacemente all’opposizione per 12 anni, resistendo anche alle sirene dei governi di unità nazionale. E, certo, non hanno loro scoperto i social come strumento di seduzione dell’elettore: da Usa 2008, quando Barack Obama utilizzò un internet molto modesto rispetto all’offerta attuale per sbaragliare un rivale di tutto rispetto, ma meno duttile, come John McCain, nessuna campagna elettorale s’è fatta senza social, in un crescendo di semplificazione del messaggio andato in sintonia con l’evoluzione delle piattaforme, dai post di Facebook ai messaggi di Twitter – Trump 2016 ne fu maestro – ai mini-spot di TikTok su cui Meloni puntava (Instagram non è mai stato un social molto sfruttato per la comunicazione politica).

In questo percorso, i punti di arrivo dell’uno sono spesso punti di partenza dell’altro. Meloni candidata, come la tesi dimostra, è stata un’ottima tiktoker (e s’è trovata a competere con rivali che o rifiutavano TikTok, come Enrico Letta, o lo usavano con impaccio, come Matteo Renzi, Carlo Calenda, persino il pur allenato Matteo Salvini, per non parlare di Silvio Berlusconi). Meloni premier sta scoprendo, e probabilmente ha già capito, che la piattaforma non è funzionale alla comunicazione istituzionale, che richiede spiegazione e pretende attenzione; e non ha in squadra, o non ha ancora trovato, qualcuno che, libero da vincoli di governo e magari persino da lealtà di partito, possa farle da incursore sui social. E, intorno a lei, cambia il panorama degli interlocutori e dei rivali.

Impossibile prefigurare oggi gli scontri politici e mediatici 2027, se la legislatura arriverà al suo termine: ci saranno avvicendamenti di persone, novità di sigle, certamente ‘rivoluzioni’ tecnologiche; e, magari, l’intelligenza artificiale, con la sua rapidità e la sua impudenza, renderà più difficile tracciare il confine, già labile e purtroppo spesso irrilevante, tra vero e falso, radicando sempre più il pubblico nella convinzione che è vero ciò che piace ed è falso ciò che infastidisce.

Franca Venditti, nelle conclusioni della sua tesi, scrive che “il successo di messaggi politici generalisti, un’offerta politica molto concreta e poco ideologica, contenuti tesi a rassicurare il corpo elettorale, sembrano orientare il futuro della comunicazione elettorale italiana” nell’attuale direzione di messaggi fatti su misura per ciascun elettore, a costo di essere contraddittori fra di loro – tanto ciascuno ascolta solo la parte che gli si confà -. Temo che abbia ragione, ma non sono sicuro che questa sia la strada giusta per ridare ai cittadini fiducia nella politica per rinvigorire la partecipazione al dibattito – che non sia scambio di messaggi d’odio – e l’affluenza alle urne. Che non sono valori di destra o di sinistra, ma di democrazia.

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gphttps://www.giampierogramaglia.eu
Giampiero Gramaglia, nato a Saluzzo (Cn) nel 1950, è un noto giornalista italiano. Svolge questa professione dal 1972, ha lavorato all'ANSA per ben trent'anni e attualmente continua a scrivere articoli per diverse testate giornalistiche. Puoi rimanere connesso con Giampiero Gramaglia su Twitter

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