Uno passa una vita, anzi quasi vent’anni, a sperare, a ogni elezione, che Erdogan il Sultano, l’autocrate, l’integralista, perda. Poi, quando sembra che davvero possa perdere, gli vengono un po’ di dubbi: la pace in Ucraina, i migranti dalla Siria, la capacità di stare in equilibrio fra i Grandi. Ansie forse sprecate, perché, magari, alla fine vincerà di nuovo lui.
Domenica 28 maggio, la Turchia torna alle urne per il ballottaggio delle presidenziali. Domenica 14 maggio, al primo turno, Erdogan, dato per sconfitto nei pronostici, aveva comunque chiuso in testa, pur senza ottenere l’ennesimo trionfo della sua carriera politica – aveva sempre vinto al primo turno le precedenti consultazioni dal 2014 a oggi -.
Il presidente uscente, fermatosi al 49,5%, è sfidato da Kemal Kilicdaroglu, leader della coalizione dei partiti di opposizione, che ha ottenuto quasi il 45% delle preferenze, ma che potrebbe avere fatto il pieno del suo serbatoio di voti. Gran parte del 5% di suffragi di Sinan Ogan, candidato di destra, potrebbe infatti andare al Sultano. Nelle elezioni politiche, il partito di Kilicdaroglu è andato meglio che l’ultima volta e quello di Erdogan peggio, ma il presidente, coi suoi alleati, conserva il controllo del Parlamento.
Recep Tayyp Erdogan, 69 anni, premier dal 2003 al 2014, e da allora ininterrottamente presidente, ha fatto della Turchia una Repubblica presidenziale, accentrando nelle sue mani un enorme potere. La sua carriera politica era cominciata negli Anni Novanta come sindaco di Istanbul. E adesso carica i suoi sostenitori prospettando che “con l’aiuto di Allah il 28 maggio proclameremo il Secolo della Turchia”.
Forte di un sostegno popolare molto ampio, specie fino alla metà degli Anni Dieci, Erdogan l’autocrate ha cancellato la Turchia laica di Kemal Ataturk, sostituendole una Turchia integralista.
Nazionalista con ricorrenti tentazioni di Grande Turchia, quasi nostalgico del passato ottomano come mostra il ripristino di Santa Sofia a moschea, implacabile verso i curdi in politica interna, spregiudicato nelle relazioni internazionali, Erdogan è finora l’unico leader che, dopo l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, ha saputo mettere d’accordo Kiev e Mosca con la pace del grano, negoziata con l’avallo dell’Onu, firmata il 22 luglio e successivamente rinnovata.
Ci si può chiedere, magari proprio per l’illusione che Erdogan possa portare la pace, o anche solo una tregua in Ucraina, se sia il buon momento per vedere uscire di scena quello che, nel 2021, forse un po’ sbrigativamente, Mario Draghi, allora presidente del Consiglio italiano, definì “un dittatore”, per quanto utile.
Ci si può chiedere se non giovi che il Sultano resti al suo posto, magari per un calcolo gretto ed egoista, che continui a garantire che due milioni di profughi siriani rimangano sul territorio turco e non si muovano verso l’Europa – una custodia retribuita dall’Ue con sei miliardi di euro -. Tanto più che Kilicdaroglu, il suo avversario, 74 anni, un politico di lungo corso, si è già impegnato, in caso di vittoria, a rimpatriare tutti i migranti – una promessa populista, perché il candidato dell’opposizione, nel tentativo di vincere, ha invaso il campo del presidente uscente -. Ma non è affatto detto che la priorità dei siriani, fuggiti dall’orrore della guerra civile nel loro Paese e accampati nelle tendopoli lungo il confine, sia tornare in Siria e non piuttosto cercare di raggiungere l’Europa.
Erdogan è personaggio pieno di chiaroscuri. In politica interna ha il favore delle masse rurali e islamiste, ma è osteggiato da intellettuali e difensori dei diritti umani, specie per la durezza nei confronti dei curdi, sistematicamente accusati di essere terroristi anche quando sono soltanto indipendentisti o autonomisti od oppositori. Il presidente turco riesce a gestire a suo favore situazioni controverse come il discusso tentato colpo di Stato del 2016: un putsch dai contorni tuttora incerti, ma che ha giustificato drastici repulisti fra i militari, i magistrati, gli accademici e anche i giornalisti.
In campo internazionale, Erdogan sa come pochi altri tenere i piedi in più scarpe: la Turchia fa parte della Nato, ma non applica le sanzioni contro la Russia per l’invasione dell’Ucraina, dà a Mosca strumenti a doppio uso, civile e militare, e acquista armi dalla Russia – i missili Scud –; è invitata (e va) ai vertici dell’Organizzazione per la cooperazione di Shangai con Cina, Russia, India, Pakistan e i Paesi dell’Asia centrale ex Unione sovietica – la spina dorsale del nuovo ordine internazionale alternativo alla governance occidentale -; è militarmente attiva in Siria, in funzione anti-curdi e pure anti-Assad, salvo poi fare il salto della quaglia e riconciliarsi con il tiranno di Damasco, purché le lasci mano libera con i curdi; è schierata in Libia a sostegno del governo fantasma d’unità nazionale e contro il generale Haftar, appoggiato dai mercenari russi del gruppo Wagner, oltre che da Egitto ed Emirati Arabi Uniti.
Quelle di Erdogan sono inimicizie e alleanze sempre duttili e temporanee, che lo portano a litigare con gli Stati Uniti di Donald Trump per la mancata estradizione dagli Usa di un suo oppositore e a tenere in ostaggio l’adesione alla Nato della Finlandia prima e della Svezia ora, perché i governi di Helsinki e di Stoccolma non gli consegnano rifugiati curdi. I rapporti a tratti tempestosi con Ue e con Usa si acquietano sempre con accordi a suo vantaggio.
Quasi vent’anni di potere del Sultano hanno allontanato la Turchia dall’Unione europea. Ma questo per Bruxelles non è stato un boccone amaro: l’ingresso di Ankara nell’Ue è sempre stato controverso e oggi, con i sei Paesi dei Balcani occidentali e con l’Ucraina alle porte, lo sarebbe ancora di più. Dossier aperto, ma partita chiusa, probabilmente quale che sia l’esito del ballottaggio.
Neppure il devastante terremoto del febbraio scorso – 50 mila le vittime in Anatolia – ha intaccato nel Sud-Est la popolarità del presidente uscente.
Una curiosità su cui riflettere: il ballottaggio di domenica si terrà il giorno dopo il 63° anniversario del golpe del 1960, primo colpo di Stato della storia della Repubblica turca; una giunta militare spodestò il governo guidato dal premier democraticamente eletto Adnan Menderes, cui Erdogan si richiama.