Di tutti gli incontri che Zelensky ‘l’europeo’ ha avuto lo scorso fine settimana a Roma, Berlino e Parigi, l’unico che poteva avvicinare la fine del conflitto in Ucraina (o almeno una sospensione delle ostilità) era quello, attesissimo, con Papa Francesco. Il presidente ucraino ha però ribadito al Pontefice che l’unico piano di pace praticabile è quello ucraino ed è stato piuttosto scoraggiante, quasi scostante, nei confronti dell’ipotesi di mediazione della Santa Sede.
Forse ringalluzzito dal coro di leader che dichiarano pubblicamente di volere essere “al fianco dell’Ucraina fin quando sarà necessario” – il che, a voler ben vedere, non significa nulla – e che chiedono “una pace equa” – e chi direbbe il contrario? -, Zelensky, dopo il colloquio in Vaticano, è netto: “Con tutto il rispetto per sua Santità, non abbiamo bisogno di mediatori… Il piano di pace deve essere il nostro – riconquistare i territori occupati, ndr – … Non intendo parlare con Putin, piccolo dittatore che uccide i prorii cittadini…”.
L’unico ruolo ‘consentito’ alla diplomazia vaticana è quello di impegnarsi per restituire alle famiglie “i bambini rapiti”: un obiettivo umanitario significativo, ma che non incide sulle sorti del conflitto, come uno scambio prigionieri; un gesto di carità più che un esercizio di diplomazia. Al Papa, che chiede “gesti di umanità”, Zelinski dona una Madonnina fatta coi resti d’un giubbotto antiproiettile.
Invece Francesco è impegnato in un tentativo di dialogo fra le parti in guerra, unico sensato prologo a un’eventuale tregua: “La Madonna di Fatima, Madre di Gesù e nostra, ci aiuti a costruire vie d’incontro e sentieri di dialogo verso la pace, e ci dia il coraggio di intraprenderli senza indugio. Preghiamo insieme”, aveva scritto sabato mattina il Pontefice su Twitter, nell’anniversario dell’apparizione della Vergine a Fatima, parrocchia di campagna della diocesi di Leiria, nella conca d’Iria, in Portogallo: era il 1917, l’Europa era insanguinata dalla Grande Guerra e la Madonna invitò tre pastorelli bambini, Lucia do Santos e i cugini Francesco e Giacinta Marto, a pregare per la pace.
Bergoglio di sicuro lo fa e continua a sollecitare i fedeli a farlo. Ma tesse pure una tela di contatti e missioni. Ricevendo Zelensky, il Papa si è messo, agli occhi di Mosca, in una posizione di parte, esattamente come aveva fatto il presidente cinese Xi Jinping, agli occhi di Kiev, quando fece visita al leader russo Vladimir Putin il 20 marzo. Adesso, Francesco deve assolutamente riuscire ad avere un contatto con Putin, come Xi in capo a un mese è poi riuscito ad avere un contatto con Zelensky; altrimenti la missione di pace è fallita prima di cominciare – sempre che ci sia margine per portarla avanti -.
Perché la diplomazia vaticana non va sottovalutata a priori, come fece Stalin che, a Yalta – febbraio 1945 – avrebbe replicato con una domanda caustica – “Quante divisioni ha il Papa?” – a chi gli suggeriva di tenere conto del Vaticano nel delineare gli assetti geo-strategici del dopoguerra. Ma non va neppure sopravvalutata, perché, quando si tratta di evitare un conflitto o di chiuderlo, dopo la fine della Guerra Fredda, negli ultimi trent’anni, la Santa Sede ha collezionato più fallimenti che successi, almeno sui fronti che coinvolgevano Super-Potenze. Anche se c’è chi le attribuisce meriti nell’avere sventato l’Olocausto nucleare all’epoca della crisi dei missili a Cuba tra Usa e Urss nell’ottobre 1962.
Un indubbio suo risultato positivo è stata la mediazione tra Argentina e Cile nella disputa sul canale di Beagle, che alla fine degli Anni Settanta rischiava di degenerare in conflitto militare – i due Paesi erano entrambi sotto dittatura e la giunta argentina aveva tendenza a usare le maniere forti pure nelle vertenze internazionali, come la guerra delle Falkland avrebbe dimostrato di lì a poco -.
L’intervento del Papa, Giovanni Paolo II, e l’azione del suo emissario, il cardinale Antonio Samorè, cui oggi è intitolato un valico andino fra i due Paesi, evitarono il ricorso alle armi e seppero avviare una trattativa destinata a protrarsi per sei anni e che, forse, non avrebbe avuto un esito favorevole senza la caduta della giunta in Argentina e il ripristino della democrazia.
Il successo fu pure favorito dalla dimensione cattolica dei due Paesi. Il canale di Beagle è lo stretto, lungo 240 chilometri e largo cinque nel punto più stretto, che ‘taglia’ le isole della Terra del Fuoco, all’estremità meridionale del Sud America, segnando per un tratto il confine tra Argentina e Cile. Più volte sul punto di fallire, la mediazione si concluse nel 1984 con la firma del Trattato di Pace e Amicizia tra Cile e Argentina, che regola, tra l’altro, i diritti di navigazione, la sovranità sulle isole dell’arcipelago, la delimitazione dello Stretto di Magellano e i confini marittimi a sud di Capo Horn.
In due occasioni successive, tra il 1990 e il ’91 e poi nel 2003, sempre Giovanni Paolo II cercò d’impedire, senza riuscirci, il ricorso alle armi. Nella Guerra del Golfo, il rifiuto di Saddam Hussein di ritirarsi dal Kuwait riduceva al minimo i margini di successo, a fronte dell’autorizzazione dell’Onu all’uso della forza – andò a vuoto pure la diplomazia sovietica, alla sua ultima recita -. Lì, inoltre, il Papa doveva muoversi nel contesto mediorientale, dove l’essere il capo della Chiesa non è di per sé un punto a favore.
Più frustrante per il Vaticano, nel 2003, il fallimento del tentativo di convincere il presidente Usa George W, Bush, un cristiano, per di più un ‘rinato in Cristo’, a non invadere l’Iraq, per rovesciare il regime di Saddam, col pretesto – una menzogna – delle armi di distruzione di massa (che non c’erano). A inizio marzo, fui personalmente testimone e cronista del disagio e della delusione dell’inviato papale, il cardinale Pio Laghi, spedito dal Papa a Washington per incontrare Bush e, se possibile, dissuaderlo dall’invasione. Il prelato lasciò Washington dicendo che la pace è un dono di Dio – ma la guerra restò la decisione di Bush -.
Tra Ucraina e Russia, è evidente il desiderio di Papa Francesco di essere utile e di favorire la pace: non c’è Angelus, non c’è udienza generale in cui il pontefice non inviti a pregare per la pace e non esprima la sua vicinanza al popolo ucraino. Ma i margini di manovra del Vaticano paiono ridotti, anche se, nelle ultime settimane, l’escalation delle minacce e dei rischi e la pesantezza del conflitto sui contendenti ha creato spiragli d’apertura al negoziato, dopo che da fine marzo 2022 e per quasi un anno tutti i tavoli erano rimasti chiusi.
L’handicap, per il Vaticano, è che la Chiesa cattolica non ha buoni rapporti con la russa ortodossa; e Papa Francesco non ne ha con il patriarca Kiril, da lui definito “chierichetto di Putin”, anche se poi ci sono stati tentativi di riavvicinamento. Ed è pure guardata con diffidenza dalla chiesa ortodossa ucraina e dalla gerarchia cattolica ucraina, perché chiunque parli di pace o di mediazione è immediatamente catalogato dagli ucraini come filo-russo.
Un’azione di pace della Santa Sede appare in questo momento aleatoria nei risultati. Quando Francesco ne ha – forse intempestivamente – parlato, sull’aereo che lo riportava a Roma dall’Ungheria, Mosca e Kiev hanno fatto mostra all’unisono di cadere dalle nuvole. Più facile immaginare che il Papa vada a Kiev e a Mosca per celebrare una pace, o almeno una tregua, piuttosto che per annodare una trattativa. Detto e scritto, ovviamente, nella speranza che Francesco e i suoi emissari diplomatici e ‘caritativi’, il cardinale Pietro Parolin e l’elemosiniere cardinal Konrad Kraiewsky, che in Ucraina ha già schivato le pallottole, smentiscano questa previsione.