Forse, il fotografo dell’Ap che ha scattato una delle foto emotivamente coinvolgenti valse all’agenzia il Pulitzer per la copertura fotografica della guerra in Ucraina non ha mai visto una ‘deposizione dalla croce’ dei nostri pittori rinascimentali. Ma lo scatto di una sepoltura in una fossa comune, vicino a Mariupol, sotto un cielo di tempesta che evoca il Giorgione, e con tre buoni samaritani al posto delle pie donne, richiama con intensità quei dipinti.
Così come la pietà araba di Samuel Aranda ricordava, anzi proprio riproponeva, una Pietà di Michelangelo: il fotografo spagnolo vinse nel 2012 il World Press Photo Award, immortalando la prostrazione di una madre, Fatima al-Qaws, che teneva fra le braccia Zayed, il figlio di 18 anni, sofferente per gli effetti dei lacrimogeni dopo una manifestazione nelle strade di Sanaa il 15 ottobre 2011 – era l’epoca delle Primavere arabe -.
La persistenza dell’arte e l’immediatezza della cronaca s’intrecciano nei Pulitzer fotografici 2023, come spesso accaduto nelle 107 edizioni del ‘Nobel del giornalismo’ americano, soprattutto quando la guerra tiene banco. E c’è sempre una guerra da fotografare da qualche parte di un mondo inquieto e violento.
L’Ap ha scritto: “Abbiamo vinto due Pulitzer, per il servizio pubblico – il più prestigioso, ndr – e per la copertura fotografica”. Il primo è andato ai giornalisti ucraini dell’Associated Press Mstyslav Chernov, Evgeniy Maloletka, Vasilisa Stepanenko e Lori Hinnant: la motivazione cita i loro “coraggiosi” reportage da Mariupol sotto l’assedio dei russi la primavera scorsa, e l’avere “testimoniato il massacro di civili durante l’invasione russa”.
Il secondo va “alle immagini uniche e urgenti delle prime settimane dell’invasione russa, – recita la motivazione -, inclusa la devastazione di Mariupol dopo che altre testate giornalistiche se n’erano andate, e a quelle delle vittime di attacchi alle infrastrutture civili e della capacità di resistere dei cittadini ucraini”.
Una delle foto dell’assedio di Mariupol, quella della partoriente portata via in barella dall’ospedale bombardato, aveva già vinto il World Press Photo Award 2022. A scattarla è stato Evgeniy Maloletka: quell’immagine è divenuta il simbolo delle sofferenze di Mariupol e delle atrocità subite dai civili in quella città.
I reporter dell’Ap furono gli ultimi giornalisti di un media internazionali a lasciare Mariupol, cinta d’assedio dai russi per circa tre mesi nella primavera 2022 e poi occupata, nonostante la strenua resistenza ucraina.
Ma non c’è solo Mariupol nel pacchetto di foto valse all’Ap il prestigioso riconoscimento: c’è “il devastante costo umano” del conflitto, con, ad esempio, gli orrori di Bucha, scena del massacro di civili, e la desolazione di una donna di 70 anni, Nadiya Trubchaninova, che ogni giorno andava e tornava dal suo villaggio a Bucha perché voleva trovare e portare a casa il corpo del figlio e dargli sepoltura.
Media: Pulitzer 2023, non solo la guerra, anche razzismo, corruzione, disagio, aborto
La guerra in Ucraina – era prevedibile – ha dominato i premi Pulitzer quest’anno. Con titoli analoghi, e senza toni trionfalistici, le ‘corazzate’ del giornalismo Usa si sono appuntate in home page i principali riconoscimenti, tutti nel segno del conflitto.
Il New York Times si attribuisce sobriamente il Pulitzer per i reportage internazionali, oltre che quello per un lungo reportage illustrato e commentato di Mona Chalabi sul Magazine del quotidiano (un’indagine sulla ricchezza del fondatore di Amazon, e proprietario del Washington Post, Jeff Bezos).
L’International Reporting’ va – è scritto nelle motivazioni – alla “risoluta copertura dell’invasione russa dell’Ucraina, compresa un’indagine di otto mesi sulle morti ucraine nella città di Bucha e sull’unità russa responsabile delle uccisioni”.
Due Pulitzer anche al Washington Post, al Los Angeles Times e al sito Al.Com di Birmingham. Il WP li ottiene per il reportage nazionale con Caroline Kitchener (sulle conseguenze dell’abolizione della sentenza sull’aborto Roe v. Wade) e per la scrittura caratteristica con Eli Saslow (con articoli evocativi su persone alle prese con pandemia, solitudine, tossicodipendenza e ineguaglianza).
Il giornale californiano vince per il ‘Breaking News Reporting’ (la rivelazione di una conversazione razzista tra dirigenti cittadini registrata segretamente) e la ‘Feature Photography’ (per uno sguardo intimo sull’esistenza di una 22enne incinta che viveva per strada in una tenda).
Tra i grandi giornali Usa non poteva mancare il Wall Street Journal: gli è stato assegnato il Pulitzer investigativo per avere rivelato i conflitti di interesse tra i dirigenti di 50 agenzie federali.
I premi al sito di Birmingham, in Alabama, meritano particolare attenzione: non è raro che il Pulitzer vada a media ‘minori’, rispetto alle testate grandi e riconosciute. Ma è piuttosto raro che due vadano contemporaneamente a un media di provincia, per di più di una provincia ‘lontana’ dai principali circuiti informativi e culturali degli Stati Uniti come l’Alabama. Al.Com s’è aggiudicato quello per il miglior reportage locale e per il miglior commento – il columnist Kyle Whitmire se l’è aggiudicato per la serie di articoli ‘State od Denial’ sulle ragioni dell’isolamento e dell’arretramento socio-politico del suo Stato, dopo 150 anni di storia ‘bianca’ nonostante la forte presenza nera, retaggiuo dell’epoca delle piantagioni di cotone e della schiaviutù -.
Una curiosità per il migliore reportage locale: un team di quattro giornalisti, in stile Spotlight, ha indagato sui comportamenti ‘predatori’ della polizia di Brookside, un’inchiesta giornalistica che è sfociato nella rimozione di funzionari di polizia, modifiche nelle leggi dello Stato, annullamenti di procedimenti giudiziari e liberazione dal carcere di persone ingiustamente detenute. Nel team, c’erano John e Ramsey Archibald, padre e figlio, insieme a Ashley Remkus e Challen Stephens.
Una prova in più che il buon giornalismo può essere ‘ereditario’: nel team di giornalisti d’inchiesta di Spotlight, il reportage sulla pedofilia nella Chiesa che valse il Pulitzer 2001 al Boston Globe, c’era Ben Bradlee jr, figlio del Ben Bradlee direttore del Washington Post dei Pentagon Papers e del caso Watergate.