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Usa 2024: Trump fa il gradasso, ma le accuse sono stillicidio

Scritto, in versioni diverse, per La Voce e il Tempo uscito lo 06/04/2023 in data 09/04/2023, per il Corriere di Saluzzo dello 06/04/2023 e per il blog di Media Duemila pubblicato lo 06/04/2023 https://www.media2000.it/usa-2024-trump-fa-il-gradasso-ma-arresto-e-processo-pesano-su-campagna/

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Una svolta, una spinta, una battuta d’arresto, un ritorno alla casella di partenza, il prologo dell’uscita di scena: tutte le ipotesi sono aperte, sull’impatto che l’incriminazione e il processo avranno sulla campagna elettorale di Donald Trump per Usa 2024. Il magnate ex presidente è accusato di 34 reati dalla magistratura di New York. Le elezioni presidenziali negli Stati Uniti saranno il 5 novembre 2024; le primarie per la selezione dei candidati inizieranno a gennaio.

Per noi italiani, è un film già visto: le accuse al magnate leader, per vicende dove privato e politico s’intrecciano; le grida di persecuzione e le pretese di non avere fatto “nulla di male”; le alchimie degli avvocati e le richieste di spostamento di sede del processo; i negoziati sui tempi e le modalità del giudizio; mancano solo i certificati medici per rinviare le udienze e procrastinare le sentenze – c’è da scommettere che arriveranno pure quelli -.

Il resto è tutto già avvenuto, con la rapidità, che non è garanzia di equità, della giustizia americana, in un pomeriggio di New York: l’ex presidente, s’è presentato al Palazzo di Giustizia di Manhattan, è stato ritualmente arrestato – ma senza manette e senza foto segnaletica; e pure senza telecamere-, è comparso in aula, s’è sentito leggere i 34 capi di imputazione, s’è dichiarato innocente; ed è stato rimesso in libertà, senza cauzione e senza limitazioni, neppure il vincolo di non parlare della causa per non influenzare la giuria. Il giudice gli ha solo intimato di non incitare alla violenza i suoi fan.

L’accusa più grave è quella di cospirazione per alterare il risultato delle elezioni del 2016, che Trump vinse su Hillary Clinton nonostante tre milioni di voti popolari in meno – ma così può essere negli Usa -. Secondo il procuratore generale di New York Alvin Bragg, il disegno cospiratorio s’articolò fra l’altro comprando il silenzio della pornostar Stormy Daniels, alias Stephanie Clifford, e dell’ex coniglietta di Playboy Karen McDougal – due donne con cui aveva avuto relazioni sessuali – e di un portiere della Trump Tower che minacciava di rivelare l’esistenza di un suo presunto figlio illegittimo.

Non era mai successo che un ex presidente finisse sotto processo per reati penali. Lui definisce “surreale” tutta la procedura e scrive sui social: “Non ho fatto nulla di illegale”. Poi, se la prende con Bragg, perché “ha chiuso New York, ha mobilitato 38.000 agenti e spenderà 200.000 dollari” per perseguire “un accordo di non divulgazione legale”. Ma la strada verso l’assoluzione è in salita, così come rischia di diventarlo quella verso la nomination repubblicana.

Il primo discorso da ex presidente imputato
Tornato a casa, a Mar-a-lago, in Florida, Trump arringa i suoi sostenitori – non una marea, invero: stanno tutti in un salone del resort -: “L’unico crimine che ho commesso è stato difendere l’America da chi la vuole distruggere… La mia incriminazione è un insulto agli Stati Uniti”.

Parla poco più di mezz’ora: il magnate, corrucciato in volto per tutta la giornata, pare meno grintoso del solito, ma non rinuncia ad attaccare “il sistema giudiziario corrotto, diventato ormai illegale”: “Non ho mai pensato che una cosa del genere potesse accadere in America”, dice. Accanto a lui, due figli, Donald jr ed Eric, ma non la moglie Melania, che l’aveva accompagnato a Manhattan, e neppure la figlia ed ex consigliera Ivanka.

Le inchieste a suo carico, un intreccio ancora tutto da districare, sono “persecuzioni politiche”; Bragg è “pagato da George Soros”; Jack Smith, che indaga sulle centinaia di documenti classificati sottratti alla Casa Bianca, è “un pazzo”. Tutti sono strumenti della “sinistra radicale” che agiscono con l’obiettivo di “fermarlo ad ogni costo”. Anche l’indagine in Georgia, per le pressioni esercitate sulle autorità statali per rovesciare l’esito del volo del 2020, è “un falso caso … e dovrebbe essere archiviata subito”.

Nel mirino di Trump, anche i rivali politici, il presidente Joe Biden e la sua avversaria nel 2016 Hillary Clinton. Di Biden, dice: “Vuole la Terza Guerra Mondiale … Quando era senatore ne combinò di tutti i colori, ma nessuno lo ha mai arrestato”. Poi rassicura i suoi sostenitori: “Stiamo vincendo da otto anni e continueremo a vincere”.

L’impatto dell’incriminazione sulla nomination
Basata su dati di fatto concreti o inoppugnabili; o politicamente motivata; o, forse, l’una e l’altra, l’inchiesta condotta dal procuratore generale di New York Alvin Bragg e ormai sfociata, dopo l’incriminazione, nel processo che inizierà a dicembre, è destinata a influenzare la campagna, e forse l’esito, di Usa 2024. Ma non è chiaro in che senso.

C’è chi pensa che il rinvio a giudizio di Donald Trump, con il suo corredo di arresto ‘pro forma’ e quant’altro, è un siluro che colpisce la campagna per la nomination repubblicana dell’ex presidente sotto la linea di galleggiamento e la affonda. Altri credono che il rinvio a giudizio sia una sferzata d’energia positiva: dà a Trump visibilità, se mai ne avesse bisogno, e un alone di persecuzione, che proprio gli mancava; gli porta soldi; e, soprattutto, mette in difficoltà i suoi rivali repubblicani, già dichiarati o potenziali, perché li costringe, per il momento, a schierarsi in sua difesa.

I democratici stanno a guardare: il presidente Biden, che deve ancora ufficializzare la ricandidatura, non commenta e dice di avere appreso dai media dell’incriminazione di Trump – è molto probabile che sia vero -. Ad eccezione di Nancy Pelosi, ormai quasi una pensionata della politica, altri leader non esternano livore verso il magnate: “Che la giustizia faccia il suo corso”, è la linea di condotta condivisa.

I repubblicani, invece, sono in fermento. Finora, il campo dei rivali di Trump per la nomination è limitato: c’è Nikki Haley, 51 anni, una sua ex sodale, già governatrice della South Carolina e rappresentante degli Usa all’Onu, origini indiane e grandi qualità, ma una popolarità da costruire; c’è l’imprenditore Vivek Ramaswamy, 37 anni, che cerca un po’ di visibilità; e c’è l’ex governatore dell’Arkansas Asa Hutchinson, 73 anni, sceso in campo il giorno dopo l’incriminazione di Trump. Hutchinson, un ‘non trumpiano’, ritiene il rinvio a giudizio dell’ex presidente un “momento triste per l’America”, ma contestualmente l’invita a farsi da parte: “Ho sempre sostenuto che una persona non deve lasciare un incarico pubblico se è sotto inchiesta. Ma quando si arriva ad accuse penali, allora il ruolo diventa più importante dell’individuo”.

Haley a parte, gli altri due sono comprimari dichiarati. Fermi ai box, ci sono per ora il governatore della Florida Ron DeSantis, 45 anni, uscito galvanizzato dal voto di midterm del novembre scorso, ma i cui consensi, inferiori a quelli di Trump fra gli elettori repubblicani, sono in calo al 26%, e Mike Pence, l’ex vice di Trump.

DeSantis è in imbarazzo: deve ora parlare a agire ‘pro Trump’ e, ad esempio, esclude l’estradizione dell’ex presidente, che risiede a Mar-a-lago, in Florida, se ce ne fosse mai bisogno. Se si candida ora, fa la figura del “vile che uccide un uomo morto”. Se aspetta troppo, il magnate magari resuscita – politicamente parlando -, usando il processo come una tribuna, e lui si deve mettere in scia. Pence, in rotta con il suo ex boss, giudica l’incriminazione “un cattivo servizio al Paese”, ma non ha chances: i ‘trumpiani’ lo bollano come un traditore, i ‘non trumpiani’ lo stimano poco. Che si candidi o meno alla nomination, le sue mire sono più modeste: tornare a fare il governatore dell’Indiana o conquistare un seggio al Congresso.

La linea dei repubblicani è quella espressa dallo speaker della Camera Kevin McCarthy, l’ ‘ercolino sempre-in-piedi’ della nomenklatura del partito: denunciare “un abuso di potere” di Alvin Bragg, il procuratore generale di New York, un democratico, che “fa il lavoro sporco per Biden” – la battuta è di Trump -; ma restare vaghi su quel che accadrà dopo, perché i sondaggi dicono che le accuse sono “credibili”, per il 70% dell’opinione pubblica, e destinano Trump all’emarginazione politica, se riconosciuto colpevole.

L’impatto dell’incriminazione sulle altre inchieste
Resta, inoltre, da valutare l’effetto dell’incriminazione sulle numerose altre inchieste che investono l’ex presidente. Il timore iniziale era che il rinvio a giudizio per una vicenda relativamente minore potesse ‘eclissare’ le indagini in corso su vicende politicamente più rilevanti e diminuire la fiducia dei cittadini nella neutralità della giustizia. Ma le notizie che arrivano paiono indicare il contrario: chi indaga su Trump prende coraggio dagli sviluppi a New York, dove è stato infranto un tabù, perché è la prima volta nella storia Usa che un ex presidente viene incriminato.

Erano 40 anni che Trump, imprenditore, impresario, showman, sciupafemmine, politico, dribblava la giustizia. Ad andare per prima a dama è quella forse meno pesante fra le inchieste che lo toccano. Le ‘scappatelle’ del magnate, con pagamenti in nero annessi, appaiono, in fondo, poca cosa rispetto alle sue responsabilità nell’insurrezione del 6 gennaio 2021, quando migliaia e migliaia di facinorosi da lui sobillati diedero l’assalto al Campidoglio per indurre senatori e deputati a rovesciare l’esito delle presidenziali del 3 novembre 2020; o alle pressioni esercitate sui leader della Georgia perché gli “trovassero i voti” necessari per aggiudicarsi lo Stato; o ancora all’ostinato rifiuto di consegnare agli Archivi Nazionali centinaia di documenti classificati malamente custoditi nella dimora di Mar-a-lago; o, infine, alla spregiudicata gestione, finanziaria e fiscale, della Trump Organization, holding di famiglia.

Fonti di stampa segnalazione accelerazioni delle indagini in Georgia, dove un Grand Jury è già stato riunito e ha ascoltato numerosi testimoni, e sui documenti sottratti: il Dipartimento della Giustizia e l’Fbi – ha scritto per primo il Washington Post – hanno prove che il magnate tentò di ostacolare l’inchiesta, dando istruzioni in merito ai suoi legali. La vicenda più pesante, quella sulla sommossa del 6 gennaio 2021, viaggia sotto traccia, ma le condanne dei facinorosi si susseguono.

 

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Giampiero Gramaglia, nato a Saluzzo (Cn) nel 1950, è un noto giornalista italiano. Svolge questa professione dal 1972, ha lavorato all'ANSA per ben trent'anni e attualmente continua a scrivere articoli per diverse testate giornalistiche. Puoi rimanere connesso con Giampiero Gramaglia su Twitter

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