C’è chi si straccia le vesti, perché tema che qui finisca la corsa alla Casa Bianca di Donald Trump. E c’è chi si straccia le vesti, perché teme che l’incriminazione galvanizzi la corsa alla Casa Bianca di Donald Trump. Tanti s’interrogano se non sia un vulnus, l’ennesimo, alla democrazia americana. E se non possa evolvere in peggio, visti i precedenti – il 6 gennaio 2021 – e i prodromi, il meeting di Waco in Texas la settimana scorsa, in un luogo tragicamente simbolo della resistenza alla legge (nel ’93, una congrega di davidiani si oppose alle forze dell’ordine: 51 giorni di assedio, 82 vittime).
Con il rinvio a giudizio di giovedì, Trump ha stabilito l’ennesimo record: non era mai successo che un ex presidente fosse incriminato per reati comuni. Martedì 4 aprile, comparirà davanti al giudice, per sentirsi notificare le accuse – una trentina di capi d’imputazione, si dice, con pene che vanno dall’uno ai 4 anni – ed essere rinviato a giudizio, arrestato e poi rimesso in libertà su cauzione. Se si presenterà volontariamente, come in passato fecero i suoi sodali Steve Bannon e Roger Stone, gli sarà risparmiata l’umiliazione delle manette, ma gli saranno prese le impronte digitali e gli saranno fatte le foto segnaletiche. Ma non è escluso che Trump cerchi provocatoriamente l’immagine shock; e già si sa che non patteggerà.
Su New York, annunciano l’intenzione di convergere suoi sostenitori: in prima fila, ci sarà Marjorie Taylor Greene, deputata della Georgia, suffragetta di Qanon. Le misure di sicurezza sono state già rafforzate. All’inizio della settimana scorsa, il magnate ex presidente aveva diffuso la falsa notizia del suo imminente arresto, mettendo in subbuglio la sua base e creando i presupposti per proteste e tumulti, che ci sono state, pur se su scala modesta. Molti analisti pensano che Trump abbia montato un circo mediatico sulla sua incriminazione soprattutto per raccogliere fondi per la sua campagna (e qualche milione di dollari è arrivato). E a New York c’è anche chi manifesta contro Trump.
Il presidente Joe Biden non commenta (“L’ho saputo dai media”), la stampa liberal fa la garantista (ma il New York Times scrive che ignorare le violazioni della legge di Trump “avrebbe alti costi”). Ron DeSantis e i repubblicani vecchio stampo indossano maschere di circostanza. L’incriminazione di Trump può affossarne le ambizioni di ritorno al potere; ma può ora galvanizzare la sua base e rendergli più agevole la strada alla nomination, costringendo i suoi rivali a manifestargli solidarietà. L’ex suo vice Mike Pence, con cui ha rotto, giudica l’incriminazione “un cattivo servizio al Paese”, perché contribuirà a polarizzare ulteriormente l’opinione pubblica. DeSantis esclude l’estradizione dalla Florida. Kevin McCarthy denuncia “un abuso di potere” da parte del procuratore generale, Alvin Bragg, un democratico, che – dice Trump – “fa il lavoro sporco per Biden”. Ma un sondaggio condanna Trump all’emarginazione se colpevole.
Però, il cammino di qui alle primarie – nove mesi – e alle elezioni del 5 novembre 2024 – 18 mesi – è ancora lungo e denso di incognite. Per Trump, che potrebbe essere solo all’inizio d’uno slalom fra le disavventure giudiziarie; e anche per Biden, il cui tasso di approvazione, dice un sondaggio dell’Ap, è sui minimi storici della sua presidenza, tra inflazione, banche in crisi, migranti e tensioni con Russia e Cina.
Le reazioni di Donald Trump non si fanno attendere, anche se, dopo avere gridato ‘al lupo’ per 15 giorni, lui si dice sorpreso: l’incriminazione è “una persecuzione politica” e “una interferenza nelle elezioni mai vista prima nella storia”. I figli sono con lui: Donald jr, che non brilla per senso della misura, parla di atto “che farebbe impallidire Mao e Stalin”; Ivanka, che non ha più rapporti di lavoro col padre, si dice “addolorata per lui e per la Nazione”.
L’indagine riguarda il pagamento in nero di 130 mila dollari alla pornostar Stormy Daniels, alias Stephanie Clifford. Il versamento avvenne nel 2016, in piena campagna elettorale. I soldi non erano il compenso di prestazioni sessuali, ma comprarono il silenzio di Stormy sui rapporti fra i due risalenti al 2010, quando Trump non immaginava ancora di scendere in politica, ma era già sposato con Melania, all’epoca incinta del loro unico figlio Barron.
L’inchiesta andava avanti da anni ed era basata sulla testimonianza dell’ ‘ufficiale pagatore’, cioè l’ex avvocato personale di Trump, Michael Cohen.
Erano 40 anni che Donald Trump, imprenditore, impresario, showman, sciupafemmine, politico, dribblava la giustizia. Ad andare per prima a dama, è quella forse meno grave fra le indagini che lo toccano. Le ‘scappatelle’ del magnate, con pagamenti in nero annessi, appaiono, in fondo, poca cosa rispetto alle sue responsabilità nell’insurrezione del 6 gennaio 2021, quando migliaia e migliaia di facinorosi da lui sobillati diedero l’assalto al Campidoglio per indurre senatori e deputati a rovesciare il risultato delle presidenziali del 3 novembre 2020; o alle pressioni esercitate sui leader della Georgia perché gli “trovassero i voti” necessari e mancanti per aggiudicarsi lo Stato; o ancora alla mancata consegna agli Archivi Nazionali di centinaia di documenti classificati malamente custoditi nella sua dimora di Mar-a-lago in Florida; o, infine, alla spregiudicata gestione, finanziaria e fiscale, della Trump Organization, la holding di famiglia.