Accadde domani – “I successi della democrazia nel 2022 potrebbero avere notevoli implicazioni nel 2023”: lo scrive, con una dose di ottimismo, German Lopez sul New York Times, forse ingigantendo i dati positivi dell’anno appena trascorso, a fronte della principale (e immanente) eredità negativa, cioè lo scoppio di una guerra in Europa che coinvolge una Super-Potenza nucleare, che sfiora il coinvolgimento della Nato e che ricrea una situazione di tensione nel Mondo confrontabile ai peggiori momenti della Guerra Fredda. Senza contare le sofferenze umanitarie, le perdite, i feriti, gli oltre sette milioni di rifugiati; e le devastazioni economiche, gli impatti globali, i costi dell’energia e l’inflazione.
Lopez trova qualcosa di positivo anche sul fronte dell’invasione dell’Ucraina da parte della Russia. Immaginatevi – scrive – che cosa sarebbe successo se gli Stati Uniti e i loro alleati avessero reagito in modo meno aggressivo all’aggressione: hanno dato armi all’Ucraina per rafforzare le sue difese e aiuti per sopperire alle esigenze della popolazione; e hanno colpito con sanzioni l’economia russa. Se non l’avessero fatto, avrebbero mandato al Mondo intero il segnale sbagliato: che le democrazie dell’Occidente non si levano a difesa delle altre democrazie.
Uno scenario che, altre volte, era parso plausibile: ad esempio, all’epoca della guerra tra Russia e Georgia; e nella crisi del 2014, quando la Russia annesse la Crimea con un contestato referendum. Del resto, anche il 2022 non è stato scevro di contraddizioni, come la vicenda del Venezuela mostra: l’Occidente pronto a sostenere il ‘golpe bianco’ di Juan Guaido, contro il presidente eletto Nicolas Maduro, fin quando il rinnovato valore del petrolio venezuelano non induce a innescare l’indietro tutta.
Il parere di Lopez sul NYT ricalca quello di Janan Ganesh sul Financial Times: “Il 2022 è stato l’anno in cui le democrazie liberali si sono fatte sentire”; e, sul piano elettorale, si sono anche prese alcune rivincite – in Brasile, ad esempio: ci torneremo; o nel voto di midterm negli Usa -, nonostante alcuni setback – in Italia, ad esempio -. Altrove nel Mondo, in Iran in modo tragico, e anche in Cina, la gente è scesa in piazza per contestare alcuni aspetti dei rispettivi regimi autoritari.
E presto per vedere nel 2022 un anno di svolta: il 2023 dovrà confermare le tendenze emerse. Ma politologi ed esperti di geo-politica, che sono spesso immersi nel loro pessimismo, appaiono più ottimisti del solito. Michael Abramowitz, presidente di Freedom House, dice con auto-ironia: “Tendo ad essere la puzzola alle feste in giardino. Ma penso che l’ultimo anno abbia contrapposto alle cose cattive cose buon e”. Le democrazie non paiono più cedere il passo agli autoritarismi, essere in ritirata a livello globale.
Accadde Domani: la cartina di tornasole dell’anno palindromo
Per essere un anno migliore del 2022 che l’ha preceduto, al 2023 basterebbe essere un anno un po’ palindromo, secondo questa sequenza: 2022 – pace – guerra – guerra – pace – 2023. Non è affatto sicuro, però, che ci riesca: se ne va un anno di guerra; e s’annuncia un anno di guerra. L’invasione dell’Ucraina, il 24 febbraio, ci colse quasi di sorpresa, nonostante mesi di allarmi e di preparativi. Adesso, l’invasione pare non potere avere fine, essersi incancrenita e cronicizzata: dal conflitto, non s’intravvede una via d’uscita; e, anzi, si prospetta, dopo l’inverno, una nuova fase di offensive e controffensive.
Sarà la pace a coglierci di sorpresa? Lo si può sperare, non c’è da crederci. Non c’è al momento un’iniziativa diplomatica di pace – o di tregua – strutturata: non si muovono in tal senso né gli Usa né la Cina, le due potenze globali che possono condizionare i comportamenti di Russia e Ucraina; l’Europa non fa il peso – e non ha autonomia, rispetto a Washington -; leader di buona volontà, ma comprimari in questo contesto, Papa Francesco, il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres, o ancora il presidente turco Recep Tayyip Erdogan offrono i loro buoni uffici. Ma la ‘pace del grano’ conclusa a Istanbul il 22 luglio, per consentire l’export dei cereali ucraini, resta l’unico risultato concreto stabile finora raggiunto.
E, nell’area ex comunista, il conflitto ha riacceso tensioni sopite: tra Armenia ed Azerbaigian; e, più vicino a noi, nei Balcani, tra Serbia e Kosovo
Chi muoverà un passo verso la pace?, chi dirà una parola di tregua? Nelle condizioni di farlo è, ora, il presidente Usa Joe Biden: contro ogni previsione, è uscito rafforzato dal voto di midterm; ha davanti a sé un anno senza l’ingombro di elezioni e di campagne elettorali; dovrà dal 3 gennaio fare i conti con un Congresso in cui i repubblicani non vogliono più dare ‘assegni in bianco’ a Kiev; e potrebbe avere l’ambizione di legare il suo nome a una cessazione dell’ostilità che non premi l’invasore e che non assecondi gli oltranzismi degli aggrediti. Resta da vedere se Biden vorrà farlo e saprà farlo.
Accadde Domani: un Mondo con pochi voti Il 2023 è un anno, sulla carta, senza elezioni politiche o presidenziali negli Stati che più contano nello scenario internazionale, anche se la situazione politica, e le consuetudini, in alcuni Paesi, come la Gran Bretagna, o anche la Francia, non escludono che si vada anticipatamente alle urne.
Il 2024, invece, sarà un anno campale, dal punto di vista elettorale, con le presidenziali negli Usa e le parlamentari nell’Ue. Nei prossimi mesi, il calendario elettorale negli Stati Uniti è piuttosto scarno: si voterà per il governatore in alcuni Stati del Sud e per il sindaco in qualche grande città, fra cui Chicago, dove Lori Lightfoot, la prima sindaco donna, afro-americana e apertamente gay d’una metropoli, cerca una conferma.
Nell’Unione europea, il 1 gennaio ha segnato l’ingresso della Croazia nell’euro – è il 20o Paese – e nell’area Schengen. Alla presidenza di turno del Consiglio dei Ministri Ue si alterneranno la Svezia, nel primo semestre, dando il cambio alla Rep. Ceca, e la Spagna, nel secondo semestre, quando Madrid sarà però ‘distratta’ dalle elezioni politiche del 10 dicembre, dopo che a maggio ci saranno state le amministrative.
Per Euractiv, la presidenza svedese rischia di essere ostaggio’ dell’estrema destra: il peso politico dei Democratici Svedesi potrebbe condizionarne agenda e priorità. Il clima di diffidenza verso le Istituzioni europee creato dal Qatargate non favorirà di sicuro l’attività politica e legislativa dell’Unione, che dovrà cercare di recuperare agli occhi dei cittadini credibilità e consenso.
Ad esclusione, salvo sorprese, di Italia, Francia e Germania, lo scacchiere elettorale europeo sarà, comunque, movimentato, con la Spagna a chiudere la serie di appuntamenti. Al Nord, il 5 marzo tocca all’Estonia, dove la premier liberal-europeista Kaja Kallas rischia di pedere la maggioranza; e il 2 aprile alla Finlandia, dove un’altra premier, Sanna Marin, di dentro-sinistra, deve guardarsi dall’avanzata del centro-destra.
Nell’area Visegrad, in Polonia in autunno ci saranno elezioni parlamentari che potrebbero decretare il superamento dell’attuale stagione politica intrisa di nazionalismo e anti-europeismo. Tra gennaio e febbraio, la Repubblica Ceca si darà un nuovo presidente, dopo i dieci anni del doppio mandato del controverso Milos Zeman. In Slovacchia, c’è l’ipotesi di una chiamata alle urne anticipata e c’è la possibilità, in un contesto politico molto frammentato, di un ritorno in scena dell’ex premier Robert Fico.
Nel Sud e nei Balcani, Spagna a parte, di cui abbiamo già detto, ci saranno le presidenziali a Cipro il 5 febbraio – Cipro è una repubblica presidenziale – e le politiche in Grecia entro luglio: i centristi paiono in grado di confermarsi partito di maggioranza. In Bulgaria, un ritorno alle urne è possibile, anzi probabile: sarebbe la quinta volta in due anni, senza che mai ne escano maggioranze stabili.
Infine, ai margini dell’Ue si vota in Svizzera: per il nuovo Parlamento il 22 ottobre. E, in Turchia, Recep Tayyip Erdogan ha lasciato intendere che si candiderà alla presidenza per l’ultima volta – il voto sarà a giugno -; dopo di che “spianerà la strada ai giovani”, dando per scontata una sua ennesima vittoria.
Accadde Domani: il Brasile, dove il nuovo è vecchio, e le incognite MO e Iran. In Brasile, il primo gennaio ha segnato l’apertura di una nuova era che è un ritorno al passato: s’è infatti insediato alla presidenza Luiz Inacio Lula da Silva, già presidente per due mandati dal 2003 al 2011 e poi finito sotto accusa e in prigione per un’inchiesta di corruzione politicamente motivata, che lo tenne fuori dalla competizione elettorale nel 2018, quando prevalse Jair Messias Bolsonaro, omofobo e ultra-conservatore, negazionista della pandemia (anche se il Covid a momenti se lo portava via) e incline alla violenza.
Nelle elezioni di ottobre, Lula ha sconfitto Bolsonaro: dopo Trump, il 2022 ci ha liberato di molti suoi cloni, Rodrigo Duterte nelle Filippine, Boris Johnson nel Regno Unito, Bolsonaro in Brasile. Non ne sentiremo la mancanza, nel 2023. Il magnate ex presidente Usa è già sceso in lizza: punta alla nomination repubblicana nel 2024, ma il suo cammino è minato dalle molte inchieste avviate contro di lui e dall’ostilità dell’establishment del partito.
Trump può ottenere la nomination, ma non pare in grado di tornare alla Casa Bianca. E le divisioni fra repubblicani nelle prime battute della legislatura uscita dal voto di midterm paiono confermare che il suo potenziale divisorio resta altissimo, ma che la sua capacità d’imporsi s’è ridotta: nel partito può impedire a un candidato di vincere, ma non riesce a portare al successo il proprio. Molto però dipende dalla scelte dei democratici: Biden deve ancora sciogliere la riserva se candidarsi o meno.
Le elezioni, però, non sono l’unica fonte di incognita politica e di fermento. In Iran, ad esempio, ci s’interroga sull’impatto che la fiammata di proteste in atto dalla metà di ottobre avrà sugli assetti della Repubblica teocratica, che nel XXI Secolo altre volte è stata scossa da fremiti insurrezionali, tendenzialmente laici e progressisti, che si sono però poi stemperati e spenti.
In tutta la regione, nel Medio Oriente, non mancano gli spunti d’inquietudine. In Israele, l’ennesimo ritorno al potere di Benjamin Netanyahu riaccende le tensioni con l’Iran e torna ad allontanare soluzioni alla questione palestinese – se n’è già avuto sentore, a Gerusalemme -, mentre la Siria vive un conflitto ormai endemico e cronico, l’Iraq resta una potenziale polveriera e la penisola araba, dove continua sotto traccia la guerra nello Yemen, è con le sue monarchie una anacronistica sentina di mancato rispetto dei diritti umani e di genere.
Nelle ultime battute del 2022 il Mondo ha perso due icone che, in campi diversissimi, hanno fatto storia: Papa Benedetto XVI e Pelè. Entrambi, però, hanno già trovato chi riempia i loro vuoti: il Papa emerito da tempo, avendo avuto la coraggiosa lucidità nel 2013 di farsi da parte, dando spazio al suo successore Francesco; Pelè ha invece passato lo scettro, ai Mondiali in Qatar, a Lionel Messi. Morto O Rey, viva il re.