Negli Anni Ottanta, le riunioni semestrali del Consiglio atlantico, al ‘quartier generale’ della Nato ad Evere, lungo il tratto di autostrada tra Bruxelles e l’aeroporto di Zaventem, erano appuntamenti semestrali importanti: a seguirle, c’erano i corrispondenti e frotte di inviati al seguito del ministro degli Esteri di turno. Nel clima teso della Guerra Fredda, erano incontri cruciali: c’era da prendere e poi da ribadire la decisione di installare gli euromissili; o da avallare l’esito delle trattative tra Usa e Urss, le ‘passeggiate nei boschi’ tra Paul Nitze e Yuli Kvitsinsky. E capitò più volte che le riunioni si chiudessero senza l’approvazione formale di un comunicato finale, perché ci voleva il consenso di tutti i Paesi membri, che allora erano solo 15, e la Grecia di Giorgio Papandreu padre, che non era più quella dei colonnelli, lo faceva mancare in polemica con la Turchia, che era ancora quella dei generali, con cui era in perenne polemica.
Ogni volta, un ‘media-dramma’: pareva di assistere all’incrinatura dell’Alleanza e ci si interrogava sul futuro della Nato. Tanto più che Stati Uniti e alleati europei erano sempre ai ferri dialetticamente corti sul ‘burden sharing’, cioè su una più equa ripartizione degli oneri della difesa: in chiaro, gli Usa chiedevano agli europei di spendere di più; gli europei facevano ‘giurin giuretta’; e, sei mesi dopo, si ricominciava da capo con lo stesso paragrafo messo lì con un ‘copia e incolla’ ante litteram sul nuovo comunicato.
Vinta la Guerra Fredda, dissolto il Patto di Varsavia e smembrata l’Unione sovietica, di riforma della Nato, superamento della Nato, abolizione della Nato si continuò a parlare negli Anni Novanta. Vennero volta a volta in soccorso di chi voleva a tutti i costi tenere in piedi l’alleanza militare Usa – Europa le missioni umanitarie e le minacce esterne e, soprattutto, le guerre nei Balcani, sulla soglia di casa, un po’ innescate, già allora, dal ‘vizietto’ occidentale dell’antitesi tra rispetto delle frontiere e autodeterminazione dei popoli, dove, volta a volta, l’uno prevale sull’altro a seconda che i Paesi e i popoli in questione siano amici nostri o del giaguaro – cioè della Russia, per quanto depotenziata in quella decade -.
E così la Nato, che non aveva sparato un colpo in 45 anni di Guerra Fredda, si ritrovò a bombardare Belgrado, per altro senza l’avallo della comunità internazionale, leggasi delle Nazioni Unite. E saranno pur state bombe intelligenti, ma fecero lutti e devastazioni, come sempre le bombe. Scossa da quell’esperienza, l’Alleanza parve vacillare, ma l’11 Settembre 2001 le diede una nuova vitalità e una nuova missione: la guerra al terrorismo, che partì da un paradosso e che molti altri ne innescò.
Il paradosso iniziale fu che l’articolo 5 del Trattato dell’Atlantico del Nord, concepito per garantire agli europei la protezione statunitense, in caso di attacco dell’Urss, venne attivato per la prima – e unica – volta nella storia dell’alleanza, per offrire agli Stati Uniti attaccati da al Qaida l’appoggio degli europei, con conseguente coinvolgimento nei vent’anni di conflitto in Afghanistan (per altro, finito con una plateale e devastante sconfitta, militare e politica). I paradossi successivi furono che la Nato si ritrovò alleati improbabili, che, con la scusa di partecipare alla guerra al terrorismo, regolavano i conti a casa loro, tipo la Russia in Cecenia. Di qui, molteplici ‘equivoci’, tipo l’ammissione della Russia al G7 divenuto G8 e gli accordi di Pratica di Mare, poi incrinati e mandati in frantumi dalla Georgia nel 2008 e dalla Crimea nel 2014.
Dopo la ‘parentesi Trump’, che aggrovigliò di instabilità e improbabilità qualsiasi relazione internazionale degli Stati Uniti, dall’Alleanza ai rapporti con la Russia, la guerra in Ucraina ripiomba la Nato nel ‘suo’ clima, la Guerra Fredda, avvicinando, però, il rischio, che non era forse mai stato così alto, che diventi in conflitto reale. L’Alleanza diventa attrattiva anche per quei Paesi che non ne avevamo mai sentito né il fascino né il bisogno, pur essendo chiaramente parte dell’Occidente, come la Svezia e la Finlandia, e diventa una calamita per Paesi dell’ex Urss che hanno dei conti da regolare con Mosca, la Moldavia, la Georgia, l’Ucraina, che hanno tutti tare che li rendono, a vario livello, problematici.
La leadership inadeguata e la ‘sindrome di Chamberlain e Daladier’
Dopo l’invasione dell’Ucraina, l’atteggiamento dell’Occidente verso la Russia pare condizionato – non so quanto coscientemente – da due fattori fra di loro contrastanti: da una parte, la ‘sindrome di Chamberlain e Daladier’, cioè la preoccupazione di essere troppo acquiescenti alle mire e alle mene di Vladimir Putin; e, dall’altra, invece, la consapevolezza che l’allargamento del conflitto significherebbe una terza guerra mondiale, nel segno dell’apocalisse nucleare.
Questo dualismo caratterizza anche, e forse soprattutto, le decisioni dal presidente Usa Joe Biden, su cui, però, pesano pure altri due fattori interni: la volontà di mostrare fermezza e quasi rigidità verso Russia e Cina, per non apparire debole, e il desiderio di recuperare consenso nell’Unione, dopo la disfatta afghana dell’estate scorsa – non il ritiro in sé, condiviso dall’opinione pubblica, ma l’impreparazione e la disorganizzazione con cui venne condotto -.
Neville Chamberlain ed Édouard Daladier erano i capi del governo di Gran Bretagna e Francia che, nel 1938, alla conferenza di Monaco coi leader tedesco e italiano Adolf Hitler e Benito Mussolini, cedettero alle ambizioni di annessione dei Sudeti del Führer, senza neppure coinvolgere l’alleata Cecoslovacchia. Volevano evitare il conflitto: lo rinviarono solo di un anno, dando però il destro alla Germania nazista di meglio prepararsi e, quindi, di rendere la guerra più lunga e più letale.
Oggi, l’Occidente non vuole essere arrendevole di fronte alla prepotenza russa, come fece nel ’38 con Hitler: non concede a Putin la Crimea e il Donbass, che sono l’equivalente dei Sudeti, e, scattata l’invasione, arma Kiev e colpisce con sanzioni Mosca; ma, nel contempo, non vuole rischiare di allargare il conflitto ed esclude di intervenire in modo diretto, con propri mezzi – di qui, il no alla ‘no-fly zone’ invocata dal presidente ucraino Volodymyr Zelensky – e uomini sul terreno.
Ma se la priorità, in questo momento, è la fine della guerra, o almeno la cessazione delle ostilità, una tregua negoziale, le scelte dell’Occidente lasciano perplessi: gli Usa, la Nato, l’Ue aumentano le frizioni con Mosca, invece di ingaggiarla nel negoziato, e lasciano spazio a mediatori che si fanno spontaneamente avanti – il turco Recep Tayyip Erdogan o l’israeliano Naftali Bennett – o che sono reticenti e riluttanti, come il presidente cinese Xi Jinping (di cui tra l’altro l’Ovest diffida).
L’arma delle sanzioni è spuntata, perché gli europei non sono pronti a colpire la Russia nell’energia – Germania, Italia e altri Paesi dipendono in modo sostanziale dal gas russo – ed è un boomerang, che rischia di stordire anche chi l’ha lanciato, come la guerra del rublo alle viste annuncia. Inoltre, in questa fase, una tattica da ‘divide et impera’ avrebbe forse evitato di riavvicinare Mosca e Pechino e di quasi cementare la loro cooperazione.
L’anello labile della riflessione occidentale sono, in questo momento, gli Usa di Biden. In missione in Europa per una trilogia di Vertici senza pari nella storia, Nato, G7 e Ue lo stesso giorno, giovedì 24 marzo, nello stesso luogo, Bruxelles, Biden si compiace di constatare che l’Occidente è più forte e più unito che mai e dice che “questa guerra è già un fallimento strategico per la Russia”.
Ma poi afferma che “Putin non può restare al potere” e fa sprofondare le relazioni russo-americane al punto più basso di tutta la Guerra Fredda – nessun presidente Usa lo aveva mai detto di Stalin o Brezhnev – e suscita un corso di critiche e distinguo – neppure Donald Trump veniva corretto così platealmente da alleati e collaboratori -. La Casa Bianca spiega che Biden non intendeva dire quel che ha detto, assicura che gli Usa non vogliono un cambio di regime a Mosca.
La durezza verbale di Biden verso Putin incrina la credibilità diplomatica occidentale e non gli fa guadagnare punti nell’Unione. L’operazione di ‘damage control’ condotta dall’Amministrazione Usa e dai suoi alleati vuole evitare che il Cremlino prenda sul serio le parole di Biden, cui su Putin scivola spesso la frizione lessicale: assassino, criminale di guerra, dittatore, macellaio, fino all’improprio ‘genocidio’ del 12 aprile, sono alcune delle espressioni dirette al leader russo, con cui, se vuole la pace, l’Occidente dovrebbe negoziare.
L’inasprimento dei rapporti tra Mosca e Washington non blocca i negoziati russo–ucraini, ma ne lascia l’Occidente ai margini: spettatore più che protagonista. La Nato parla un linguaggio di guerra, non di pace: è nelle corde e nella natura di un’alleanza militare, ma pare quasi che ad Evere – sempre lì – siano contenti di potere rispolverare le formule degli Anni Ottanta. Riforma?, perché?, adesso, poi, che serviamo di nuovo e che gli europei pagano.
Quando l’alleato recita ed è un po’ un guitto
Magari, c’è un’attenzione non adeguata alla qualità degli alleati che ci si sceglie (o ci si trova). Nessun dubbio che l’Ucraina sia l’aggredito e la vittima e che la Russia sia l’aggressore e il reo; ma ciò non cancella tutte le perplessità che l’Occidente aveva sull’Ucraina, democrazia instabile, fermenti reazionari, corruzione pervasiva.
Fino al 24 febbraio, con l’eccezione – forse – della Polonia e dei Baltici, non c’era nessun Paese Nato davvero desideroso di accogliere Kiev nell’Alleanza (e nessun Paese Ue di accoglierla nell’Unione). E anche adesso l’accelerazione del processo di adesione all’Ue è, sostanzialmente, una pantomina: Ursula von der Leyen dice al presidente ucraino Volodymyr Zelensky che in estate potrebbe essere cosa fatta; ma, attenzione!, non l’Ucraina nell’Unione, ma il riconoscimento all’Ucraina dello statuto di Paese candidato. Dopo, potranno passare dieci anni di negoziati e adeguamenti perché l’adesione si faccia, se gli ucraini non si stuferanno prima e non faranno prima un’altra inversione di rotta – in 32 anni di indipendenza, ne hanno già sperimentate più d’una -.
Quando venne eletto, nella primavera del 2019, Zelensky parve a molti, quasi a tutti, l’epigono degli ‘istrioni al potere’ di questo scorcio di XXI Secolo: una serie inaugurata da Silvio Berlusconi, antesignano nel ruolo, e portata all’apice da Donald Trump: l’imprevedibilità e l’incompetenza esaltate a ‘titoli di merito’ e mescolate con buone dosi di populismo e qualunquismo e, soprattutto, alla capacità d’interpretare gli umori della gente, cioè di conquistare il favore degli elettori.
A Zelensky, poi, l’appellativo di ‘istrione’ sembrava tagliato su misura: lui era un attore e il titolare di una compagnia di produzione – Kvartal 95 -, divenuto popolare recitando il ruolo del presidente in una serie televisiva intitolata Servitore del Popolo – nulla a che vedere, come qualità di prodotto e livello di interpretazione con West Wing e Martin Sheen -; e il suo partito si chiama proprio così, Servitore del Popolo
Ma nella crisi con la Russia, prima, e dopo l’invasione, ora, quell’ometto, che come attore ricordava un po’ il Mr. Bean di Rowan Atkinson, ha saputo ritagliarsi un nuovo ruolo che gli calza a pennello. E gli autori dei discorsi e i costumisti lo assecondano molto bene: Parlamento che vai, citazione che trovi; e sempre la maglietta militare, che non è aggressiva come la mimetica, ma che fa passare l’idea di una mobilitazione popolare.
Il presidente attore è divenuto il simbolo e l’ambasciatore della resistenza ucraina. Parla nelle strade di Kiev e nei Parlamenti di mezzo mondo: evoca l’11 Settembre al Congresso Usa; cita Churchill e la lotta contro il nazismo ai Comuni britannici; richiama Verdun all’Assemblea nazionale francese, il Muro al Bundestag tedesco, Guernica alle Cortes spagnole; paragona Mariupol distrutta a Genova al Parlamento italiano; agli irlandesi dice che la Russia vuole affamare l’Europa come all’epoca della carestia delle patate. Solo in un caso, proprio quando lui ebreo crede di giocare in casa, sbaglia misura: alla Knesset non piace il paragone tra la guerra in Ucraina e l’Olocausto, forse anche perché non tutti hanno dimenticato che molti ucraini combatterono per il Terzo Reich.
Al Consiglio di Sicurezza dell’Onu, chiede “un tribunale sul modello di Norimberga” per giudicare i colpevoli dei crimini di guerra in Ucraina, nonostante né la Russia né l’Ucraina né gli Stati Uniti riconoscano la Corte di Giustizia internazionale. E lancia un’invettiva: “La Russia vuole uccidere più civili possibile… Dove sono le garanzie che deve dare l’Onu? Dov’è la pace che il Consiglio di Sicurezza deve costruire? I russi vogliono ridurci in schiavitù”.
Non è il linguaggio di chi vuole negoziare, di chi a fine marzo pareva pronto a venire a patti. Ora, “la questione non è se o meno negoziare, ma quanto s’è forti al tavolo della trattativa”. Qualcosa è cambiato: gli ucraini si sono convinti, o qualcuno o qualcosa li ha convinti, di potere vincere; e Usa e Nato intravedono, forse, un’occasione per ridimensionare la Russia e sbarazzarsi di Putin, senza, per altro, la certezza che il prossimo sia meno peggio.
E Zelensky ha compiuto la sua ennesima mutazione: da attore a presidente di un Paese dilaniato dalle tensioni interne e corroso dalla corruzione, che si espone al ricatto di Donald Trump – aiuti solo a patto di un’indagine sui Biden -; da eroe della resistenza a condottiero della controffensiva. L’attore che voleva essere presidente aveva promesso in campagna elettorale di dialogare coi ribelli del Donbass, russofoni e filo-russi, e di porre termine al conflitto; e sul fronte interno di sconfiggere la corruzione. Nessuna delle sue promesse è stata mantenuta. Ma chi le ricorda più?, adesso che c’è un nemico da cacciare.
E l’interlocutore da trattare con le pinze è divenuto l’’anti-Putin’ per antonomasia. Ma, se vuole puntellare la pace e non accettare, con la guerra, la propria sconfitta, perché l’Alleanza si vuole dissuasiva, la Nato, prima di pensare a una riforma, dovrebbe darsi una leadership più adeguata e interlocutori più affidabili.