L’esito delle elezioni di midterm dell’8 novembre negli Stati Uniti è nelle mani degli indecisi: capita spesso, specie quando la popolarità del presidente non fa la differenza. Un sondaggio targato Politico dà a Joe Biden un tasso di approvazione del 43% – basso, ma è stato più basso – e un tasso di disapprovazione al 55%; e, soprattutto, indica che il 15% dei potenziali elettori non ha ancora deciso per chi votare. La Gallup ieri attribuiva a Biden un tasso di approvazione del 40%.
Per contro, molti hanno già fatto la loro scelta: i dati del voto anticipato finora disponibili confermano l’andamento del 2018 – il confronto con il 2020 è improprio: l’ ’early voting’ toccò quote record per l’effetto pandemia -. Secondo la Cnn, gli elettori sono particolarmente solleciti negli Stati critici: Pennsylvania, Michigan, Wisconsin, nella ‘cintura della ruggine’, e, più a Sud, Georgia. I rapporti di forza nel futuro Congresso si possono decidere lì.
L’altra notte, molta attenzione ha ricevuto il dibattito fra i candidati senatori della Pennsylvania: John Fetterman, democratico, reduce da un ictus, che doveva mostrare una recuperata efficienza – test non superato al 100% – e Mehmet Oz, repubblicano, ‘trumpiano’, medico, popolare conduttore di talk show: energia e clima, economia e inflazione, aborto i temi su cui sono emerse divergenze. In Pennsylvania, il senatore uscente, il repubblicano Pat Toomey, un anti-Trump, non si ripresenta: il suo è uno dei pochi seggi, forse il solo, che i democratici possono strappare ai repubblicani.
Per prendere il controllo del Congresso, ai repubblicani basta poco: l’8 novembre si eleggono infatti tutti i 435 deputati – i democratici ne hanno 220 e i repubblicani 212, con tre posti vacanti – e 35 dei 100 senatori – sono 50 pari: la maggioranza democratica posa sul voto del presidente del Senato che è il vice-presidente degli Stati Uniti, Kamala Harris -. Ci sono pure da rinnovare 39 governatori, in 36 Stati e tre territori; e ci sono numerose altre elezioni statali e locali e alcuni referendum.
Il confronto sui diritti – l’aborto, ma non solo: l’accesso al voto e le tutele delle minoranze – è stato aspro durante tutta la campagna. Alcuni Stati, come l’Arizona e il Nevada, dichiarano addirittura guerra’ a voto elettronico e computo elettronico dei suffragi espressi e faranno conteggi paralleli, elettronico e manuale, che probabilmente daranno risultati, sia pure marginalmente, difformi, accrescendo la sfiducia dei cittadini nella politica.
Dopo l’estate, l’attenzione per questi temi s’è però smorzata, mentre s’accrescono le preoccupazioni per l’economia e, soprattutto, l’inflazione, per la criminalità e per l’immigrazione, con il caos che persiste al confine con il Messico: temi a favore dei repubblicani. Diversi sondaggi, infatti, indicano che i repubblicani sono in crescita nelle intenzioni di voto e che le loro speranze di conquistare una o entrambe le Camere del Congresso hanno fondamento.
Per il Washington Post, tutte le principali corse per il Senato, ad eccezione di quella della Georgia, inclinano a favore dei repubblicani, mentre i democratici, alla Camera, ricevono segnali d’allarme in distretti dal Rhode Island all’Oregon dove gli avversari di solito non erano competitivi. L’Ap cancella la Florida dagli Stati in bilico: la terra rifugio dei pensionati ricchi è ormai repubblicana.
I repubblicani sono mediamente ritenuti più affidabili quando c’è da rimettere in sesto l’economia: un rilevamento Washington Post/Abc mostra che il 54% dei potenziali elettori ha più fiducia in loro sulle questioni economiche e che solo il 37% ha più fiducia nei democratici. Ciò perché in generale le politiche dei repubblicani sostengono gli affari, gli scambi e gli investimenti; tagliano le tasse, per accelerare la crescita, e riducono le regole, il che piace alle imprese e stimola la concorrenza. Dati e considerazioni che fanno presagire l’8 novembre una ‘valanga rossa’: magari ‘mini’, ma sufficiente a rovesciare i rapporti di forze in bilico al Senato e alla Camera.
Tanto più che, a giocare contro Biden, ci sono gli ‘amici del giaguaro’: in questo caso, i sauditi, come raccontano sia il WSJ che il NYT. Washington pensava di avere un patto con Riad: aumento della produzione di petrolio fino alla fine dell’anno, per raffreddare i costi dell’energia e quindi l’inflazione, in cambio dell’incontro – politicamente scomodo – di Biden con il principe ereditario Mohammed bin Salman, il mandante dell’assassinio di Jamal Khashoggi. Ma ora l’Arabia Saudita fa comunella con la Russia all’Opec e taglia la produzione di petrolio per tenere su i prezzi.
Biden ha le sue grane. Ma pure Donald Trump non se la passa bene: contro di lui, la commissione della Camera, le indagini dell’Fbi, le inchieste della magistratura di New York. E il capo dello staff alla Casa Bianca Mark Meadows dovrà deporre in Georgia, dove Trump fece pressioni per alterare l’esito del voto.