La Russia accelera verso i referendum per l’annessione dei territori occupati in Ucraina: si faranno nel Donbass – le repubbliche auto-proclamate di Donetsk e di Lugansk – e a Kherson e a Zaporizhzhia; si voterà, quasi dovunque, da venerdì a martedì. E fa scattare una “mobilitazione militare parziale”, con il richiamo di fino a 300 mila riservisti, perché “L’Occidente vuole dividerci e distruggerci”. Nell’annunciarlo, con un discorso in tv mercoledì mattina, il presidente russo Vladimir Putin aggiunge, a mo’ di monito e minaccia: “Abbiamo molte armi per rispondere al ricatto nucleare”.
L’Ucraina rallenta la controffensiva, ma – dice il presidente Volodymyr Zelensky – “Può sembrare che ci siamo dati una calmata, ma ci stiamo solo preparando al prossimo balzo”. La guerra in Ucraina è forse a una svolta: il rischio, però, è che non si vada verso la pace, ma verso un’escalation del conflitto e un allargamento.
L’Onu prova a prendersi la scena, che non ha mai saputo fin qui tenere, con l’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Il presidente Usa Joe Biden lancia un appello al sostegno dell’Ucraina contro l’invasione della Russia; il cancelliere tedesco Olaf Scholz giudica “una farsa” e respinge come “inaccettabili” i referendum – lo stesso linguaggio degli Stati Uniti e dell’Alleanza atlantica -. Mario Draghi, al passo dell’addio come presidente del Consiglio italiano, dice che l’invasione dell’Ucraina mina “i valori” e “gli ideali” della comunità internazionale, che deve restare unita e ferma nella risposta all’arroganza di Mosca.
Alberto Zanconato, che la scorsa settimana aveva seguito per l’ANSA il Vertice di Samarcanda della SCO, l’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai, ci aveva visto giusto: le pressioni della Cina e dell’India, i giganti asiatici partner della Russia, non sono stati sufficienti a far fare marcia indietro al presidente russo Vladimir Putin, che fa spallucce di fronte alle “preoccupazioni”, come le derubrica lui, di Xi Jinping e Narendra Mori e non mostra alcun ripensamento.
L’operazione militare continuerà, dichiara: Mosca “non ha fretta” di raggiungere i suoi obiettivi, che rimangono inalterati; e “nessuna correzione” verrà apportata al piano generale.
Il Vertice della SCO a Samarcanda: pressioni, ma anche sostegni
Eppure gli incontri nella città che fu tappa sulla Via della Sera nei tempi antichi avevano lasciato trasparire malumori e perplessità, in particolare della Cina, che vede pericoli di destabilizzazione della regione e un possibile ostacolo alla sua crescita all’espansione della sua influenza economica. Modi, il premier indiano, lo ha salutato con queste parole: “Eccellenza, oggi non è il tempo di fare la guerra”.
Identico il messaggio recapitato dal presidente turco Recep Tayyip Erdogan, in un faccia a faccia con Putin: il conflitto ucraino deve finire “al più presto”, ha affermato il presidente turco. E’ quello che vuole la Russia, ha risposto il leader del Cremlino, ma Kiev – ha aggiunto – “rifiuta i negoziati”.
Nel complesso, però, Putin e Xi hanno discusso delle “crisi globali in un’atmosfera amichevole”. L’obiettivo strategico, del resto, rimane lo stesso per entrambi: resistere a quello che Mosca e Pechino vedono come un tentativo dell’Occidente di imporre un sistema globale “unipolare”. Parlando all’assemblea dello Sco, il cinese ha detto che è arrivato il momento “di rimodellare l’ordine internazionale in una direzione più giusta e razionale”. E il russo gli ha fatto eco, criticando le “rivoluzioni colorate”, che negli ultimi decenni hanno scosso diverse ex repubbliche sovietiche e salutando quella che ha definito la nascita di “nuovi centri di potere” alternativi agli Usa e alla Ue.
Al di là delle divergenze di vedute sull’Ucraina, Russia e Cina sembrano dunque ribadire l’intenzione di portare avanti insieme la sfida al potere occidentale, anche in campo economico. Xi, ad esempio, sottolinea l’esigenza di sviluppare sistemi di pagamento tra i Paesi della SCO basati sulle valute locali: un passo nella direzione auspicata da Putin, cioè verso la de-dollarizzazione, che renderebbe le sanzioni meno efficaci e minerebbe una delle colonne portanti del potere americano.
Il gasdotto alternativo tra Russia e Cina
Un nuovo gasdotto porterà l’energia russa in Cina passando per la Mongolia: la compagnia russa Rosneft, controllata dal governo, ha raggiunto un’intesa in tal senso con le autorità di Ulan Bator. L’annuncio era stato dato in prima persona, il 7 settembre, dal presidente russo, dopo un incontro con il premier mongolo Luvsannamsrai Oyun-Erdene a Vladivostok.
Il nuovo gasdotto si chiamerà Forza – o Energia – della Siberia 2. L’accordo è stato poi suggellato, proprio a Samarcanda, dove Putin e Xi hanno anche avuto un incontro con il presidente mongolo Ukhnaagiin Khurelsukh.
Della Sco, fanno parte, oltre al nucleo base, Cina, Russia, Kazakhstan, Kirghizistan, Tagikistan e Uzbekistan, anche India, Pakistan e Iran, mentre la Mongolia è un Paese osservatore. Molti Paesi Sco hanno partecipato, a inizio settembre, alle grandi manovre militari russo-cinesi, insieme a Paesi del tutto estranei all’area e all’organizzazione, come, ad esempio, Algeria e Nicaragua.
Tutti segnali che l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia e la reazione dell’Occidente stanno ridisegnando rapporti e alleanze. Il nuovo gasdotto aggiunge un tassello al puzzle. E, negli Usa, ci s’interroga sul ruolo dell’India.
Tra Mosca e Pechino, una partnership d’interessi
L’incontro tra Putin e Xi – il loro primo faccia a faccia dall’invasione dell’Ucraina – e il Vertice della SCO avvengono mentre le truppe di Mosca perdono posizioni, nel Nord-Est del Paese invaso – in pochi giorni, gli ucraini hanno liberato oltre 8000 kmq di territorio, un’area come l’Umbria -.
Per Xi, è la prima missione fuori dalla Cina dall’inizio della pandemia, cioè in oltre trenta mesi. Mercoledì 14, in Kazakhstan, Xi aveva pure avuto un incrocio logistico con Papa Francesco, che partecipava al Congresso, disertato dal patriarca Kirill, dei Leader delle Religioni mondiali e tradizionali. Ma non c’era stato un contatto diretto e non era scattata una scintilla di pace.
Nell’ambito del nuovo e consolidato asse Mosca – Pechino, con il supporto di Teheran, Putin ottiene da Xi la disponibilità “a lavorare insieme come tra grandi potenze”, ma deve anche dare rassicurazioni. Putin ha più bisogno che mai del sostegno di Xi e di un rafforzamento delle relazioni tra Russia e Cina economiche e commerciali, geo-politiche e militari. E Xi è sotto pressione, perché la sua politica ‘zero Covid’ frena la crescita del Paese e guerra e sanzioni sono ulteriori laccioli. Entrambi devono fronteggiare una crescente animosità dell’Occidente nei loro confronti; le misure per l’invasione dell’Ucraina, da una parte; l’inasprimento del confronto su Taiwan, dall’altra.
Il refrain cinese è sempre quello della stabilità globale. Alcuni analisti ritengono che non si possa parlare di sostegno di Pechino alla linea di Mosca, ma di “cinismo” cinese di fronte alla scelta russa di scatenare una guerra in Europa. Putin dice di “comprendere le preoccupazioni di Pechino” e denuncia “l’orribile mondo unipolare”, che l’Occidente vorrebbe creare; e reitera la minaccia, se Washington darà a Kiev missili a lungo raggio ci sarà un’escalation del conflitto. Lucio Caracciolo, direttore di Limes ed esperto di geo-politica, definisce questa fase “una guerra indiretta” tra Russia e Stati Uniti.
L’ennesima linea rossa tra Mosca e Washington
Dunque, la Russia torna a tracciare una linea rossa. A Mosca la portavoce del Ministero degli Esteri Maria Zakharova avverte: “La possibile fornitura di missili a lungo raggio da Washington a Kiev sarebbe estremamente destabilizzante. Se gli Usa lo faranno, supereranno la linea rossa e diventeranno parte del conflitto. La Russia si riserva di rispondere adeguatamente”. Per Zakharova, gli Usa vogliono prolungare la guerra, a rischio di restarvi coinvolti.
Ma anche il presidente Usa Joe Biden traccia una linea rossa: chiede a Putin di non usare armi chimiche e/o nucleari in Ucraina. “Non farlo! Se lo facessi, il volto della guerra cambierebbe”, dice un po’ teatralmente in un’intervista a 60 Minutes sulla Cbs. La replica Usa “sarebbe consequenziale” e la Russia diventerebbe “ancora di più un paria nel Mondo”. Mosca fa spallucce: “Legga la nostra dottrina nucleare”, consiglia Dmitry Peskov, portavoce del Cremlino. La Russia prevede il ricorso ad armi nucleari tattiche in caso di aggressione che metta a repentaglio “l’esistenza” o “la sovranità e l’integrità territoriale dello Stato”.
Mentre Putin e Xi si vedevano a Samarcanda, Zelensky riceveva a Kiev Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea, che gli portava in pegno d’amicizia cinque miliardi di euro per la ricostruzione.
Sulla svolta in Ucraina, la stampa Usa è prudente e il presidente Biden si esprime con molta cautela sulla controffensiva delle forze di Kiev e sulla ritirata delle truppe di Mosca: “E’ presto per trarne conclusioni”, dice e ripete girando l’Unione in campagna per il voto di midterm dell’8 novembre.
Due le ipotesi che più preoccupano: che Mosca, per fermare la controffensiva, usi armi nucleari tattiche; o che coinvolga nel conflitto gli Stati Uniti. Anche per questo, citando l’Ap, gli Stati Uniti evitano di inscenare “una danza della vittoria” sull’avanzata ucraina. In visita a Città del Messico, Antony Blinken, segretario di Stato, ricalca le parole di Biden: “Le forze ucraine hanno fatto importanti progressi, specie nel Nord-Est, nella loro controffensiva contro le truppe russe”; ma è “troppo presto per prevederne l’esito” perché i russi mantengono in Ucraina “forze molto significative, così come armi, munizioni ed equipaggiamenti; e continuano a usarle indiscriminatamente contro le forze armate ucraine e contro i civili e le infrastrutture civili”.
Washington mette pure la sordina nel reclamare credito per quanto sta avvenendo: “E’ frutto – dice Blinken – del sostegno che abbiamo fornito, ma è soprattutto frutto dello straordinario coraggio e della resilienza delle forze armate ucraine e del popolo ucraino”. E, almeno per il momento, nega all’Ucraina armi a più lunga gittata di quelle che ha già avuto – gli Himars da 70/80 chilometri -.
A inizio settembre, Biden, Blinken e il segretario alla Difesa Lloyd Austin avevano molto insistito con gli alleati europei perché non incrinassero l’unità dell’Occidente in questo momento, che può essere di svolta nel conflitto, percependo le fibrillazioni degli europei sui fronti delle sanzioni e dell’energia, all’avvicinarsi dell’inverno che imporrà loro sacrifici.
L’ora del negoziato? Dubbi e interrogativi
La reazione di Mosca, quale che sia, segnerà un deterioramento dello scenario e un innalzamento del livello di rischio. A meno che russi e ucraini, per motivi diversi, non ritengano che sia giunta l’ora del negoziato: sui media Usa, si osserva che, negli ultimi giorni, fonti russe e ucraine hanno spontaneamente evocato la trattativa, sia pure subordinata a condizioni reciprocamente inaccettabili.
A New York, Erdogan, che è stato l’artefice della ‘pace del grano’ del 22 luglio, rivela qualcosa delle conversazioni in Uzbekistan con Putin, che lui qualifica di “caro amico”: “E’ disposto a porre fine a questa situazione il prima possibile”. Eccesso di ottimismo? Erdogan aggiunge: “Se ci sarà una pace, ovviamente la restituzione delle terre che sono state invase diventerà molto importante e si farà”, glissando, però, sulla Crimea. Da Moscam giungono smentite.
Gli analisti a Washington si pongono una serie di domande. Il dato di fatto è che gli ucraini hanno praticamente ripreso tutto il Nord-est occupato dai russi da sei mesi, nell’area di Kharkiv, favoriti dal fatto che gli invasori hanno spostato truppe ed equipaggiamenti a Sud nell’ipotesi che gli ucraini operassero lì un contrattacco, nell’area di Kherson. Gli interrogativi riguardano che cosa accadrà adesso, se gli ucraini saranno in grado di consolidare le posizioni e se i russi lanceranno, o meno, una leva per rinforzare gli effettivi e mandare rinforzi.
Molta attenzione destano i segnali di incrinature nell’opinione pubblica russa: deputati di Mosca, San Pietroburgo e Kolpino hanno chiesto le dimissioni di Putin, giudicandone le decisioni “lesive degli interessi della Russia e dei suoi cittadini”. L’intelligence statunitense vuole valutare la portata dei fermenti generati dall’ “onda di shock delle sconfitte sul terreno”.
I rovesci sul campo di battaglia danno fiato ai critici di Putin, come inducono i suoi sodali a cercare capri espiatori fra i ministri e i generali. A Kiev è invece difficile contenere l’euforia o quanto meno la speranza che la guerra abbia preso una piega favorevole: le bandiere ucraine che tornano a garrire sui villaggi liberati e delle truppe russe che se ne vanno abbandonando armi e mezzi.
Il New York Times non parla di “segnali decisivi” di una disfatta russa, ma la campagna ucraina “ha tagliato le linee di rifornimento nemiche, creato sbandamento nelle truppe russe, galvanizzato gli ucraini e avvilito i sostenitori di Putin”. Gli analisti, però, non escludono qualcosa di simile a quanto già accaduto dopo la prima fase dell’invasione, cioè una riduzione del fronte, puntando tutto sull’occupazione ed eventualmente l’annessione del Donbass.