Dopo l’invasione dell’Ucraina, l’atteggiamento dell’Occidente verso la Russia è condizionato – non so quanto coscientemente – da due fattori: da una parte, la ‘sindrome di Chamberlain e Daladier’, cioè la preoccupazione di essere troppo acquiescenti alle mire e alle mene di Vladimir Putin; e, dall’altra, la consapevolezza che l’allargamento del conflitto significherebbe una terza guerra mondiale, nel segno dell’apocalisse nucleare.
Neville Chamberlain ed Édouard Daladier erano i capi del governo di Gran Bretagna e Francia che, nel 1938, alla conferenza di Monaco coi leader tedesco e italiano Adolf Hitler e Benito Mussolini, cedettero alle ambizioni di annessione dei Sudeti del Führer, senza neppure coinvolgere l’alleata Cecoslovacchia. Volevano evitare il conflitto: lo rinviarono solo di un anno, dando però il destro alla Germania nazista di meglio prepararsi e, quindi, di rendere la guerra più lunga e più letale.
Oggi, l’Occidente non vuole mostrarsi debole e arrendevole di fronte alla prepotenza russa, come fece nel ’38 di fronte a Hitler: non concede a Putin la Crimea e il Donbass, che sono l’equivalente dei Sudeti, e, scattata l’invasione, arma Kiev e colpisce con sanzioni Mosca; ma non vuole neppure rischiare di allargare il conflitto ed esclude di intervenire in modo diretto, con propri mezzi – di qui, il no alla ‘no-fly zone’ invocata dal presidente ucraino Volodymyr Zelensky – e uomini sul terreno.
Ma se la priorità, in questo momento, è la fine della guerra, o almeno la cessazione delle ostilità, una tregua negoziale, le scelte dell’Occidente lasciano perplessi: gli Usa, la Nato, l’Ue aumentano le frizioni con Mosca, invece di ingaggiarla nel negoziato, e s’affidano a mediatori internazionali che si fanno avanti senza avere l’autorità sufficiente – il turco Recep Tayyip Erdogan o l’israeliano Naftali Bennett – o che si mostrano reticenti e riluttanti, come il presidente cinese Xi Jinping (di cui tra l’altro si diffida, se il New York Times si chiede se dopo l’Ucraina non tocchi a Taiwan).
Per di più, l’arma delle sanzioni è spuntata, perché gli europei non sono pronti a colpire la Russia nell’energia, poiché dipendono – specie Germania e Italia, fra i grandi Paesi – in modo sostanziale dal gas russo; e perché si tratta di un boomerang, che rischia di stordire chi l’ha lanciato, o almeno anche chi l’ha lanciato, come la guerra del rublo alle viste annuncia.
Edith Bruck, scrittrice e superstite della Shoah, ha idee chiare e radicali: “La guerra – scrive – non èì mai giusta”. Papa Francesco dà dei pazzi a quanti dicono di volere la fine del conflitto e aumentano le spese militari; e, domenica, all’Angelus, ha lanciato una vera e propria invettiva contro la guerra “bestiale, barbara e sacrilega”: “E’ un luogo di morte, dove i potenti decidono e i poveri muoiono”,ì “è una sconfitta per tutti, da abolire prima che sia lei a cancellare l’uomo dalla storia”. E prega che “il coraggio del dialogo e della riconciliazione prevalga sulle tentazioni di vendetta, di prepotenza, di corruzione”.
L’anello debole della catena occidentale sono, in questo momento, gli Stati Uniti, anzi è Joe Biden, il loro presidente. In missione in Europa per una trilogia di Vertici senza pari nella storia, Nato, G7 e Ue lo stesso giorno, giovedì 24, nello stesso luogo, Bruxelles, Biden si compiace che l’Occidente è più forte e più unito che mai – anche se l’energia divide i Grandi – e dice che “questa guerra è già un fallimento strategico per la Russia”.
ùMa poi afferma che “Putin non può restare al potere” e fa sprofondare le relazioni russo-americane a un punto più basso di tutta la Guerra Fredda, quando nessun presidente Usa aveva mai affermato una cosa del genere di Stalin o di Brezhnev, e suscita un corso di critiche e prese di distanza. Non era forse mai capitato a un presidente degli Stati Uniti, neppure all’imprevedibile e vulcanico Donald Trump, di essere così coralmente ‘corretto’ da alleati e collaboratori. La Casa Bianca spiega che Biden non intendeva dire quel che ha detto, che gli Usa vogliono un cambio di regime a Mosca.
L’operazione coordinata di ‘damage control’ vuole evitare che il Cremlino prenda sul serio le parole di Biden, che su Putin si lascia spesso scivolare la frizione lessicale: assassino, criminale di guerra, dittatore, macellaio, alcuni degli epiteti già appioppati al leader russo, con cui, se vuole la pace, l’Occidente dovrebbe negoziare.
Nonostante tutto, la diplomazia internazionale è in fermento. Dopo un lungo incontro, i ministri degli Esteri indiano Subrahmanyam Jaishankar e cinese Wang Yi dicono di volere “un cessate il fuoco immediato in Ucraina” – Cina e India, all’Onu, si sono astenute, sulle mozioni di condanna dalla Russia -. E secondo Xi la comunità internazionale “dovrebbe davvero incoraggiare la pace, promuovere i colloqui e creare le condizioni per una soluzione politica”, senza applicare sanzioni che “non facilitano il dialogo”.
Ci sono fermenti nei negoziati bilaterali, che riprendono dopo una pausa di due settimane: Zelensky è disposto a discutere della neutralità dell’Ucraina; Putin ad ‘accontentarsi’ del Donbass filo-russo o indipendente o annesso, forse perché nel suo ‘cerchio magico’ di consiglieri e oligarchi si manifesta qualche incrinatura e qualche defezione. E ci sono pure segnali di normalizzazione della situazione, che possono però significare che la guerra diviene routine: in settimana, riprendono i voli tra Russia e Israele, Egitto e Turchia, dopo che erano già ripresi a marzo verso Kirghizistan, Armenia e Azerbaigian.
La pace in Ucraina che si sperava di Pasqua ha, adesso, un’altra data simbolo: il 9 Maggio, quando la Russia celebra la vittoria sulla Germania nazista. Per quel giorno, i soldati russi starebbero ricevendo l’indicazione che il conflitto sarà finito, in tempo per festeggiare sulla Piazza Rossa un’altra vittoria.