Un’ovazione per il presidente Volodymyr Zelensky martedì nel Parlamento europeo; e, poche ore più tardi, un’ovazione per l’ambasciatrice ucraina a Washington Oksana Markarova, che assiste, nella tribuna d’onore, al discorso sullo stato dell’Unione del presidente Usa Joe Biden davanti al Congresso riunito in sessione plenaria. L’ambasciatrice ha in mano una bandierina del suo Paese, gialla e blu; e la first lady. Jill, vestita di giallo e blu come molte parlamentari nell’emiciclo, l’abbraccia.
La scena di Washington è contemporanea ai bagliori delle esplosioni nella notte dell’Ucraina: bombe e missili su Kiev e altre grandi città; anziani, donne e bambini nei rifugi; convogli di truppe che avanzano da Est, da Nord, da Sud. Di fronte all’invasione russa, lanciata una settimana fa, l’Ucraina continua a ricevere vibrante solidarietà, ma anche aiuti concreti.
La ‘guerra lampo’ dell’Armata Rossa è fallita, per la resistenza ucraina, E ora, il conflitto, scatenato dal presidente russo Vladimir Putin, entra in una nuova fase, ancora più imprevedibile e pericolosa, avverte sul Washington Post Adam Taylor: la Russia alza il livello della minaccia, evocando l’uso dell’arma nucleare, e l’Occidente alza il livello del coinvolgimento, inasprendo le sanzioni a Mosca e inviando a Kiev aiuti non solo umanitari, ma militari.
Ci sono colloqui fra le due parti. Kiev chiede un immediato cessate-il-fuoco, Mosca pone condizioni all’Occidente: neutralizzazione e “denazificazione” dell’Ucraina, riconoscimento dell’annessione della Crimea nel 2014. Sul terreno, gli effetti della cyber-war russa, che gli esperti temevano devastanti, si rivelano meno efficaci del previsto: le tattiche di difesa territoriale tradizionali della popolazione ucraina rallentano, quando non fermano, l’avanzata dell’invasore.
E’ una guerra in Europa, come nei Balcani per tutti gli Anni Novanta; è un’invasione ai confini dell’Unione, per la prima volta da quando s’è intrapresa la strada dell’integrazione. Putin riporta indietro gli orologi della cronaca e della storia, lanciando il più grande attacco militare in Europa dalla Seconda Guerra Mondiale: centinaia le vittime – per ora – e milioni i profughi – 600 mila avevano già superato mercoledì le frontiere con Polonia e Romania -; code ai Bancomat e alle pompe di benzina.
Il 23 febbraio, siamo andati a dormire con l’ansia in cuore nell’Europa del 2022. E ci siamo svegliati bruscamente nell’Europa del 1939, coi soldati della Wehrmacht che spostano le barriere al confine con la Polonia. O nella Mesopotamia del 2003, con le immagini dell’operazione ‘Shock and Awe‘, atterra e terrorizza, che segnò l’inizio dell’invasione dell’Iraq.
L’Occidente che da settimane gridava al lupo resta sorpreso quando il lupo arriva davvero. Partono le sanzioni in crescendo, dopo esitazioni iniziali: economiche, bancarie, finanziarie, beni russi congelati perché la Russia non possa utilizzare le riserve internazionali e per creare intorno a Putin l’ostilità degli oligarchi colpiti nei loro interessi. L’Ue – per la prima volta – compra armi da inviare in Ucraina, i Paesi dell’Ue mandano materiale bellico, anche i più renitenti a prendere posizione come la Svezia e la Finlandia; persino la Svizzera, Paese geloso della propria neutralità, e crocevia di transazioni finanziarie, si allinea alle sanzioni europee e congela i capitali russi. La Fifa e l’Uefa sospendono tutte le squadre russe, nazionali o di club dalla partecipazione alle loro competizioni, dopo che Polonia e Svezia si rifiutano di andare in Russia a giocare le qualificazioni ai Mondiali. Stati Uniti e altri Paesi mettono a disposizione parte delle loro riserve energetiche strategiche, tentando di calmierare i prezzi di gas e petrolio.
Biden a Putin: “Pagherai il prezzo”
Nel suo discorso, Biden dice che Putin, “un dittatore”, “pagherà il prezzo” dell’aggressione all’Ucraina e sprona Stati Uniti e Paesi alleati a “resistere uniti”. Cosa che – nota – sta avvenendo, deludendo le aspettative di Putin di divisioni fra i suoi interlocutori: “Putin è più isolato che mai”, ha sferrato un attacco “premeditato e non provocato”, ha mal calcolato la determinazione dell’Occidente a fermarlo, “s’è sbagliato”.
E Biden, che prova a vestire i panni di ‘comandante in capo’ dell’Occidente, anche se tono e postura non hanno nulla di eroico, annuncia una misura anti-russa già adottata da molti altri Paesi, specie europei: la chiusura dello spazio aereo ai velivoli russi.
Un discorso non cambia l’inerzia di una guerra, ma può cambiare l’inerzia di una presidenza. Accade che, sul sostegno all’Ucraina e sulle sanzioni contro la Russia e i suoi alleati, Biden riceva applausi bipartisan e prolungati, nel segno di quella politica estera condivisa che sembrava relegata fra i ricordi del passato dopo la stagione presidenziale di Donald Trump.
Con i sondaggi in calo da agosto, Biden vuole rimettere sui binari diritti la sua presidenza e sostiene che l’Unione è sulla strada giusta, con la pandemia in recessione e l’economia in ripresa, nonostante le sfide che deve affrontare: la costruzione di “un’America migliore” – afferma – è avviata. Quella d’un Mondo più giusto non può fermarsi alle ovazioni per l’Ucraina.
Un attacco inspiegabile, senza i ‘cui prodest’ della geo-politica
L’attacco russo all’Ucraina appare inspiegabile, se letto alla luce dei ‘cui prodest’ della geopolitica: ci perdono tutti. Ma sotto c’è – ci deve essere – dell’altro, a cominciare dall’ossessione di Putin per l’Ucraina.
Annettere alla Russia l’Ucraina russofona?, ‘demilitarizzare’ l’Ucraina – strano modo per riuscirsi, riempiendola di carri e di militari -?, ‘make Russia great again’?, scimmiottando lo slogan d’un ex presidente Usa che lo giudica “un genio”, Donald Trump? Dai discorsi di Putin, si capisce che lui non ha in mente l’Urss di Stalin o di Breznev, ma la Russia zarista di Pietro il Grande e Caterina II.
Di albe tragiche, ne abbiamo viste altre nella storia recente, negli ultimi cinquant’anni, tralasciando quindi le repressioni sovietiche delle insurrezioni nell’Ungheria 1956 e nella Cecoslovacchia 1968. In Europa, o ai suoi confini, ci sono state le guerre accese dal dissolvimento della ex Jugoslavia, e poi la guerra in Georgia scatenata sempre da Putin nel 2008 – e le cui cicatrici restano evidenti -. Fuori dall’Europa, i conflitti mediorientali, l’occupazione del Kuwait da parte dell’Iraq nel 1990, l’11 Settembre 2001, l’invasione dell’Iraq nel 2003, quest’ultima dettata da un’ossessione forse analoga da quella di Putin verso l’Ucraina: quella per Saddam Hussein di George W. Bush jr, che sentiva la missione di concludere quello che il padre aveva giustamente lasciato a mezzo nel 1991, cioè il cambio di regime a Baghdad.
E ora? Con qualche eccezione non secondaria – Cina e India su tutti -, la comunità internazionale, l’Onu, l’Ue, la Nato, hanno chiari gli obiettivi: bisogna ripristinare la sovranità dell’Ucraina, garantire la sicurezza dell’Europa, tutelare la legalità internazionale. Nella storia recente, le sanzioni da sole non sono mai state sufficienti. Questa volta, con la resistenza ucraina, i fermenti di protesta russi e il lavorio diplomatico, potrebbero intaccare la sicumera di Putin.
Come riuscirci? L’Occidente e i suoi partner promettono sanzioni “come mai viste prima”, peggio di quelle per l’annessione della Crimea nel 2014 – che sono tuttora in vigore -, peggio che mai. Però, le sanzioni non sono mai servite a ristabilire la situazione ‘quo ante’, neppure quando le subimmo – giustamente – noi al tempo della Guerra d’Etiopia: colpiscono il ‘reprobo’, ma hanno anche conseguenze negative su quanti le applicano – e subiscono ritorsioni -. Che, in questo caso, possono essere molto pesanti, a livello di forniture d’energia e di costi dell’energia.
Nella storia recente, il ripristino della situazione preesistente e il ristabilimento della legalità e dell’ordine internazionali non sono mai stati ottenuti con le sanzioni: nel 1982, dopo l’invasione delle Falkland, o nel 1991, dopo quella del Kuwait, ci volle un’azione militare – la seconda volta, sotto l’egida dell’Onu, impensabile ora perché Mosca ha diritto di veto nel Consiglio di Sicurezza -.
Kissinger e le ragioni della Russia trascurate
L’Occidente ha forse trascurato, sia nel 2014 che nelle ultime settimane, le ragioni della rigidità della Russia sull’Ucraina. E’ quanto emerge da una rilettura, otto anni dopo, dell’analisi scritta, all’epoca dell’annessione della Crimea, da Henry Kissinger sul Washington Post e dall’esistenza d’un documento del 1991 scovato da uno storico statunitense e ora riproposto da Der Spiegel.
Ma ovviamente nulla avalla o giustifica l’invasione decisa da Putin la scorsa settimana, che costituisce una palese violazione del diritto internazionale. Del resto, Kissinger, nel 2014, dopo avere argomentato sui fondamenti storici della posizione di Putin, aveva concluso: “È incompatibile con le regole dell’ordine mondiale esistente che la Russia annette la Crimea. Ma dovrebbe essere possibile mettere le relazioni della Crimea con l’Ucraina su una base meno ostica … La Russia riconoscerebbe la sovranità dell’Ucraina sulla Crimea. L’Ucraina dovrebbe rafforzare l’autonomia della Crimea nelle elezioni che si terranno alla presenza di osservatori internazionali”.
Nulla di tutto ciò è accaduto. E, anzi, otto anni dopo Putin non s’accontenta di riconoscere e magari annettersi, previo referendum, le autoproclamate repubbliche separatiste russofile del Donbass, Donetsk e Lugansk, ma aggredisce tutta l’Ucraina, con l’obiettivo di un ‘cambio di regime’ a Kiev e la pretesa di “neutralizzare e de-nazificare” il Paese. Kissinger, che ha 98 anni, oggi non commenta, ma non sarebbe certo condiscendente nei confronti del leader russo, ferme restando considerazioni di allora valide ancora ora.
Nel 2014, nel pieno della crisi innescata dalla sommossa di piazza Maidan, che aveva rovesciato Viktor Yanucovich, presidente ucraino democraticamente eletto, filorusso, l’ex consigliere per la Sicurezza nazionale e segretario di Stato di Richard Nixon argomentava che l’Occidente doveva avere una più attenta valutazione delle esigenze di sicurezza manifestate da Mosca e soprattutto delle radici di quella “ossessione ucraina” espressa dal presidente Putin a tutti i suoi interlocutori Usa, da George W. Bush a Joe Biden, passando per Barack Obama e Donald Trump.
Kissinger è uomo da ‘real politik’: fu il regista del coinvolgimento Usa nel golpe in Cile del 1973 e l’ideologo del riavvicinamento tra Usa e Cina nel 1972 con lo sdoganamento di Mao Tze-tung; negoziò l’uscita degli Usa dal Vietnam con gli accordi di Parigi del 1973, che gli valsero il Nobel per la a lui in coppia con il suo omologo vietnamita Le Duc Tho, e fu il fautore della distensione Est-Ovest con gli Accordi di Helsinki del 1975.
Oggi è meno presente sulla scena politica degli Stati Uniti, ma resta una figura autorevole, seppur discussa. Nel 2014, scriveva: “L’Occidente deve capire che, per la Russia, l’Ucraina non può mai essere solo un paese straniero. La storia russa è iniziata in quella che è stata chiamata Kievan-Rus. La religione russa si diffuse da lì. L’Ucraina ha fatto parte della Russia per secoli e le loro storie si sono intrecciate prima di allora. Alcune delle battaglie più importanti per la libertà russa … furono combattute sul suolo ucraino … Dissidenti famosi come Aleksandr Solzhenitsyn e Joseph Brodsky hanno insistito sul fatto che l’Ucraina è parte integrante della storia russa e, in effetti, della Russia”.
E osservava: “Trattare l’Ucraina come parte di un confronto Est-Ovest affonderebbe per decenni qualsiasi prospettiva di portare la Russia e l’Occidente – in particolare la Russia e l’Europa – dentro un sistema internazionale cooperativo”.
Anche Der Spiegel spezza una lancia a favore delle richieste di Putin, ferma restando la condanna dell’invasione. Una delle tesi di Mosca, sempre respinta dall’Occidente, è che l’Alleanza atlantica si sia impegnata, alla caduta dell’Urss, a non espandersi a Est e che questo impegno sia stato disatteso.
Il settimanale tedesco scrive che una nota trovata nell’archivio nazionale britannico dallo studioso Usa Joshua Shifrinson avallerebbe il punto di vista russo. In un incontro tra funzionari dei ministeri degli Esteri di Stati Uniti, Regno Unito, Francia e Germania – non ancora unificata -, a Bonn il 6 marzo 1991 – tema: la sicurezza della Polonia e di altri Paesi dell’Est -, il rappresentante tedesco Jürgen Chroborg dichiarò: “Nelle trattative abbiamo chiarito che non estenderemo la Nato oltre l’Elba. Non possiamo quindi dare alla Polonia e agli altri l’ingresso nella Nato”. E il rappresentante Usa Raymond Seitz aggiunse: “Abbiamo chiarito all’Unione Sovietica che non trarremo vantaggio dal ritiro delle truppe sovietiche dall’Europa dell’Est”. Di lì a una dozzina d’anni, tutti i Paesi dell’ex Patto di Varsavia e anche tre ex repubbliche sovietiche, i Paesi baltici, erano nella Nato.