C’è l’ipotesi di un cessate-il-fuoco sul tavolo dei negoziati tra Russia e Ucraina, che riprenderanno questa mattina, nell’area della foresta di Bialowieza, al confine tra Bielorussia e Polonia. Lo fa sapere il capo negoziatore di Mosca, Vladimir Medinsky. La delegazione russa è già sul posto, quella ucraina, cui – dice la Tass – l’esercito russo ha garantito un corridoio di sicurezza, è attesa questa mattina. Kiev conferma la partenza del suo team, avvenuta solo avere avuto assicurazione che Mosca non porrà ultimatum.
La foresta di Bialowieza è un’antica foresta vergine – l’ultimo residuo dell’immensa foresta che migliaia di anni fa copriva tutta l’Europa centrale -, situata a cavallo del confine tra Bielorussia e Polonia, 70 chilometri a nord della città di Brest-Litovsk, dove il 3 marzo 1918, esattamente 104 anni or sono oggi, venne firmata la pace tra gli Imperi centrali e la Russia bolscevica.
Il secondo round dei colloqui russo-ucraini – il primo s’era svolto lunedì -, si apre con vaghi segnali di una possibile pausa nei combattimenti, anche se le notizie dal terreno non sono per nulla incoraggianti. Gli Stati Uniti stimano che le perdite russe nei sette giorni di invasione dell’Ucraina ammontino a circa 2.000 uomini.
Mosca accusa Kiev di avere ritardato la ripresa dei colloqui, prevista per ieri, “su ordine degli Usa”, insinua il ministro degli Esteri russo Serguiei Lavrov, citato dalla Tass. Secondo l’Ap, Lavrov sta irrigidendo la sua posizione per recuperare credito agli occhi del presidente Vladimir Putin, che gli rimproverava una eccessiva ‘condiscendenza’ verso gli Stati Uniti. Agnello fattosi lupo, Lavrov avverte: “Una Terza Guerra Mondiale sarebbe nucleare e devastante”.
Anche David Arakhamia, membro della delegazione ucraina e capo del partito di governo Servitori del Popolo, aveva detto che i negoziati sarebbero ripresi ieri. Stranamente, i russi paiono essere più pressati degli ucraini, forse perché l’economia russa “sta subendo seri colpi” dalle sanzioni Usa e Ue – ammette il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov -, pur se “resta in piedi”.
Il clima diplomatico internazionale resta teso. L’ambasciatore ucraino all’Onu Sergiy Kyslytsya accusa la Russia di “genocidio”, paragona Putin ad Adolf Hitler e l’invasione alla ‘soluzione finale’. La Russia non esclude ‘rischi di scontro’ e ‘un escalation di incidenti’ con l’Alleanza Atlantica.
Con 141 sì, cinque no, 35 astensioni, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite vara una risoluzione di condanna dell’invasione dell’Ucraina: il documento non ha conseguenze operative, ma è politicamente significativo. Nel 2014, l’Assemblea non approvò l’annessione della Crimea da parte dell’Onu, avvenuta in modo incruento. A votare contro sono stati, oltre alla Russia, Bielorussia, Siria, Eritrea e Corea del Nord, alleati che è meglio perdere che trovare. Cina, India e altri su cui forse il Cremlino contava si astengono.
Domani, ci saranno riunioni straordinarie dei ministri degli Esteri dell’Ue e della Nato. Kiev chiede all’Alleanza di valutare l’ipotesi di una no-fly zone sui cieli ucraini, ma la risposta è nelle parole del segretario generale Jens Stoltenberg: ‘Il Patto Atlantico è al fianco dell’Ucraina, ma non vuole essere parte del conflitto in atto. Non manderà sue truppe e non manderà aerei nello spazio dell’Ucraina’.
La posizione Usa è stata ribadita, la scorsa notte, dal presidente Joe Biden, la cui Amministrazione ha creato una ‘task-force’ composta da dieci procuratori per perseguire gli oligarchi russi “corrotti”.
Nel discorso sullo stato dell’Unionbe, Biden assicura che Putin, “un dittatore”, “pagherà il prezzo” dell’aggressione all’Ucraina e sprona Stati Uniti e Paesi alleati a “resistere uniti”. Cosa che – nota – sta avvenendo, deludendo le aspettative di Putin di divisioni fra i suoi interlocutori: “Putin è più isolato che mai”, ha sferrato un attacco “premeditato e non provocato”, ha mal calcolato la determinazione dell’Occidente a fermarlo, “s’è sbagliato”.
Sul sostegno all’Ucraina e sulle sanzioni contro la Russia e i suoi alleati, Biden riceve applausi bipartisan e prolungati, nel segno di quella politica estera condivisa che sembrava relegata fra i ricordi del passato dopo la stagione presidenziale di Donald Trump.