Libertà per Abdullah Ocalan, il leader curdo detenuto in isolamento da 23 anni sull’isola di Imrali, nel Mar di Marmara, in Turchia: la chiedono, oggi, alle 14.30, i partecipanti a due manifestazioni contemporanee a Roma, in piazza dell’Esquilino, e a Milano, a Largo Cairoli; analoghe iniziative sono annunciate in varie città di tutto il Mondo.
Oltre alla liberazione di Ocalan, i manifestanti chiedono la cancellazione del partito da lui fondato nel 1978, il Pkk (Partito dei lavoratori del Kurdistan), dalla lista delle organizzazioni terroristiche. Originariamente di ispirazione marxista-leninista, il Pkk mirava a dare una patria a oltre 40 milioni di curdi, l’etnia più grande al Mondo senza un’identità nazionale, divisi tra Turchia, Siria e Iraq.
Oggi, nel segno del confederalismo democratico, un nuovo paradigma politico ispirato dagli scritti di Ocalan dal carcere, il movimento non vuole più uno Stato curdo, ma lavora a una società senza Stato dove possano convivere – e partecipare alla vita politica – tutti i popoli del Medio Oriente, d’ogni cultura o religione.
Uno dei suoi avvocati, Ibrahim Bilmez, in una conferenza stampa a Roma, organizzata dall’ufficio della cultura curda in Italia, ha riferito che “l’isolamento di Ocalan peggiora col tempo”: “Non lo incontro da dieci anni; e ora sono 18 mesi che non ne abbiamo notizie. L’ultimo contatto risale infatti al marzo 2021, quando girò la voce che fosse morto di covid”.
All’inizio degli Anni Ottanta, Ocalan, 74 anni, lasciò il Kurdistan turco per sottrarsi alla repressione di Ankara. Trovò riparo in Siria fino al 1998, quando decise di andare altrove, a Mosca.
La vicenda di Ocalan, che sta alla lotta del popolo curdo per l’autonomia e l’indipendenza come Nelson Mandela sta alla lotta contro l’apartheid dei neri in Sudafrica, conobbe, nel novembre 1998, un risvolto italiano non lusinghiero: il leader del Pkk giunse da Mosca a Roma, innescando una crisi tra Turchia e Italia.
Ocalan non ottenne subito l’asilo politico, che gli sarebbe stato concesso solo un anno dopo, quando era ormai detenuto a Imrali; ma non poteva neppure essere estradato in Turchia, perché lì c’era ancora la pena di morte.
Il governo, di cui erano premier Massimo D’Alema e ministro degli Esteri Lamberto Dini, lo fece partire di soppiatto alla volta del Kenya, dove fu accolto presso l’Ambasciata di Grecia a Nairobi: vi rimase chiuso diversi giorni, ma quando uscì fu intercettato e catturato da un commando di agenti dei servizi segreti turchi, con un atto considerato di pirateria internazionale, e portato in Turchia. Usa e Israele negarono responsabilità nel sequestro.
Le immagini del fondatore e leader del Pkk bendato e ammanettato fecero il giro del mondo. Pochi mesi dopo, la Turchia lo condannò a morte per attività separatista armata, equiparata a terrorismo; nel 202, la pena fu commutata in ergastolo. Per una decina d’anni, Ocalan fu l’unico detenuto sull’isola prigione di Imrali, consegnata all’immaginario collettivo dal film Yol di Yılmaz Güney. Poi, anche grazie alle pressioni internazionali, la Turchia ha trasferito lì altri prigionieri curdi.
Nel 2018, la Corte di Giustizia Ue bocciò l’inclusione del Pkk fra le organizzazioni terroristiche.
L’avvocato Bilmez intende incardinare la sua iniziativa per la liberazione di Erdogan su due pilastri: il ‘diritto alla speranza’ riconosciuto dal Consiglio d’Europa, secondo cui, dopo vari anni, il detenuto ha diritto a chiedere una revisione della sentenza; e il fatto che il suo assistito abbia sempre “cercato una soluzione pacifica al conflitto tra turchi e curdi in Turchia”. Infatti, fin dalla prima udienza del suo processo, il leader curdo chiese alla guerriglia di deporre le armi e cercare un’intesa sul ‘cessate il fuoco’ con l’esercito turco.
La questione curda resta vivissima in Turchia. L’Akp, il partito del presidente Erdogan, la usa come strumento elettorale, ora proponendosi come forza propulsiva di una soluzione politica e ora facendo saltare i negoziati, se l’Hdp, il partito curdo la cui legittimità non è contestata, gli erode consensi. Ed Erdogan non ha esitato, in questi anni, a portare la lotta contro i curdi fuori dai confini, nel Nord della Siria, complice lo strabismo degli Stati Uniti e dell’Unione europea: vedono i curdi come eroi quando sono la prima linea della lotta al sedicente Stato islamico, ma li abbandonano al loro destino quando non ne hanno più bisogno.