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Pearl Harbor: 80 anni dopo, lo spettro dell’attacco di sorpresa

Scritto per Toscana Oggi dello 01/12/2021

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Fu la prima volta che le telescriventi dei giornali in America fecero squillare tutti i loro campanelli. Accadde di nuovo solo il 22 novembre 1963, quando, a Dallas, venne ucciso John F. Kennedy. Il 7 dicembre 1941, ottant’anni or sono, l’attacco giapponese contro la base americana di Pearl Harbor, alle Hawaii, colse di sorpresa la politica, l’intelligence e le forze armate, e naturalmente i media e l’opinione pubblica; ebbe un bilancio tragico – 2403 le vittime – e un impatto devastante; trascinò gli Stati Uniti nella Seconda Guerra Mondiale; entrò nella storia come il Giorno dell’Infamia – definizione data dal presidente Usa Franklyn D. Roosevelt -.

Oggi una Pearl Harbor non potrebbe più accadere: a navi ed aerei giapponesi bastò il silenzio radio per avvicinarsi senza essere intercettate all’obiettivo; ora, i satelliti monitorano tutti i movimenti militari (e non solo). Eppure, l’11 Settembre 2001, quando i campanelli non suonarono solo perché ormai i silenziosi computer avevano sostituito le rumorose telescriventi, ha rivelato agli Stati Uniti la loro vulnerabilità di fronte a un nemico persino più subdolo di quello nipponico, il terrorismo. Che è difficile da prevenire: può colpire ovunque, di sorpresa, senza esporsi a essere intercettato.

Come avverrà per l’11 Settembre, anche Pearl Harbor è terreno fertile di teorie complottistiche, che mettono in discussione la verità storica, in cui restano – va ammesso – lacune e punti interrogativi. E, di quell’evento e della Guerra nel Pacifico, la cinematografia statunitense ha costruito narrazioni spettacolari e talora propagandistiche: film patriottici, come Arcipelago in fiamme diretto nel 1943 da Howard Hawks, e film nel mito, Da qui all’eternità – 1953, Fred Zinneman -, a Prima vittoria – 1965, Otto Preminger -, Tora! Tora! Tora! – 1970 , le varie versioni della Battaglia delle Midway, fino a Pearl Harbor – 2001, Michael Bay -. Il memoriale dell’attacco è uno dei monumenti militari più visitati degli Stati Uniti, nonostante sorga alle Hawaii. E ogni anno nelle scuole Usa ancora si ricorda il Giorno dell’Infamia.

L’attacco: la dinamica, il bilancio

L’attacco di Pearl Harbor avvenne alle prime luci dell’alba del 7 dicembre 1941: gli aerei nipponici partirono da una flotta di portaerei della marina imperiale giapponese e colsero impreparata la flotta del Pacifico Usa e le installazioni militari statunitensi di Pearl Harbor, sull’isola di Oahu, nell’arcipelago delle Hawaii.

L’operazione fu attuata prima della dichiarazione di guerra del Giappone agli Stati Uniti, che – narra una versione – venne formalizzata solo ad attacco iniziato causa ritardi nella decrittazione del testo in codice da parte dell’ambasciata nipponica a Washington. L’attacco innescò l’ingresso in guerra degli Usa: suscitò nell’opinione pubblica un forte risentimento verso il Giappone e i suoi alleati – Germania e Italia – e consentì a Roosevelt, che parlò alla radio alla Nazione, coniando la formula Giorno dell’Infamia, di superare le remore alla partecipazione al conflitto.

L’attacco fu concepito e guidato dall’ammiraglio Isoroku Yamamoto, a bordo della nave da battaglia Nagato nella baia di Hiroshima: obiettivo, annientare la flotta del Pacifico degli Stati Uniti. L’operazione fu un successo tattico notevole: con i danni inflitti alla flotta nemica, il Giappone potè dominare il Pacifico per almeno sei mesi, prima che gli Stati Uniti riuscissero ad allestire una flotta in grado di contrastare quella giapponese e di rovesciare poi l’inerzia del conflitto nella battaglia delle Midway – giugno 1942 -. 

Le perdite umane ammontarono a 2.403 morti statunitensi (2.008 della marina, 109 dei Marines, 218 dell’esercito, 68 civili) e 1.178 feriti. Una corazzata, la Arizona, saltò in aria; una, la Oklahoma, si capovolse; l’ex corazzata Utah, ormai nave bersaglio, andò perduta; molte altre unità, corazzate, incrociatori, cacciatorpediniere, posamine, navi appoggio, furono semi-affondate o gravemente danneggiate, ma poterono essere recuperate. Sui campi d’aviazione di Oahu furono distrutti 151 aerei e dieci vennero abbattuti in volo dai caccia giapponesi. Gli aerei giapponesi non colpirono, però, le portaerei americane non presenti in porto e non bombardarono i depositi di carburante e l’arsenale della base.

Marginali, al confronto, le perdite giapponesi: 29 aerei, in parte abbattuti dalla contraerea e in parte dai caccia Usa; un grande sommergibile e tutti e cinque i sommergibili tascabili impiegati. I caduti da parte nipponica furono 189, 59 aviatori e 130 marinai.

L’attacco: le conseguenze, gli esiti

L’attacco a Pearl Harbor e le operazioni concomitanti nel Sud-Est asiatico e in Melanesia fecero entrare in guerra il Giappone con gli Stati Uniti e la Gran Bretagna e l’Olanda – potenze coloniali nella regione – e i loro numerosi alleati. A lungo andare, il conflitto si sarebbe rivelato troppo impegnativo per le risorse, già logorate nella guerra con la Cina, dell’Impero del Sol Levante.

In una prima fase, le forze giapponesi, determinate fino al fanatismo, compirono notevoli conquiste territoriali, mentre gli alleati dovevano dividere le loro forze tra il fronte europeo e quello pacifico. Ma, alla fine, non poterono evitare la sconfitta, suggellata dalle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaky il 6 e 9 agosto 1945.

Dopo l’attacco di Pearl Harbor, i giapponesi residenti negli Stati Uniti, anche con cittadinanza Usa, vennero obbligati a lasciare le loro abitazioni e a trasferirsi in campi di internamento: considerati potenziali nemici, più di 110.000 nippo-statunitensi furono collocati in campi allestiti in California, Idaho, Utah, Arizona, Wyoming, Colorado e Arkansas, in base all’Executive Order 9066, firmato dal presidente Roosevelt il 19 febbraio 1942. Sorte analoga toccava ai cittadini tedeschi e italiani – finiti in campi in Montana, Oklahoma, Texas e Tennessee -.

Le lezioni non imparate della Storia

Molte polemiche seguirono l’attacco di Pearl Harbor, come l’attacco all’America dell’11 Settembre: l’incredulità di fronte alla sorpresa e all’impreparazione, nonostante non mancassero, nel ’41 come nello ’01, segnali premonitori – conflitti in corso, convenzionali e non convenzionali -, crea dubbi e suscita interrogativi, alimenta contro-narrazioni e complottismi.

Ma le lezioni della Storia vengono spesso ignorate o dimenticate. E, a volte, non basta neppure averle imparate e ricordarle: i progressi della tecnologia offrono strumenti difensivi sofisticati, ma, nel contempo, anche strumenti offensivi inediti. Inoltre, l’imprevedibilità della minaccia terroristica ci impedisce di sentircene al riparo: possiamo intercettare le comunicazioni online e prevenire, magari, attentati su larga scala; ma non prevedere e impedire l’azione di un ‘lupo solitario’.

Succede persino che ci si faccia trovare impreparati dagli eventi prevedibili, come, dopo vent’anni, la vicenda afghana dimostra. Ma questa non è storia: è cronaca recente.

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gphttps://www.giampierogramaglia.eu
Giampiero Gramaglia, nato a Saluzzo (Cn) nel 1950, è un noto giornalista italiano. Svolge questa professione dal 1972, ha lavorato all'ANSA per ben trent'anni e attualmente continua a scrivere articoli per diverse testate giornalistiche. Puoi rimanere connesso con Giampiero Gramaglia su Twitter

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