Joe Biden contro tutti. Dopo il vertice con il presidente cinese Xi Jinping, era plausibile un qualche gesto distensivo. Lui fa invece girare la voce di un boicottaggio diplomatico dei Giochi invernali di Pechino 2022, mentre i media occidentali sguinzagliano reporter sulla pista della tennista cinese Peng Shuai, che latita dopo e forse per avere denunciato la violenza subita da un pezzo grosso del Partito comunista. – “E’ una storia montata”, dicono da Pechino -. E tiene fuori la Cina dal Vertice delle Democrazie con 110 Paesi: legittima l’esclusione – difficile considerare democratico il sistema politico cinese -, discutibile magari l’inclusione di Taiwan.
Con la Russia, il dialogo è fermo al Vertice di Ginevra, in giugno, con Vladimir Putin, salvo i negoziati Start sugli armamenti nucleari strategici. Gli Usa contestano a Mosca l’atto da ‘Star Wars’ della distruzione di un oggetto in orbita intorno alla Terra colpito da un missile anti-satellite e lanciano allarmi per l’ammassarsi di 100 mila truppe russe alla frontiera ucraina – “un’isteria artificiosa”, è la linea del Cremlino -.
In polemica con Xi, sul chi vive con Putin, Biden sfida pure l’Opec e ordina il ricorso alle riserve petrolifere strategiche per abbassare i prezzi dei carburanti e frenare l’inflazione che galoppa e minaccia la ripresa economica e la sua popolarità. D’accordo con India, Giappone, SudCorea, Gran Bretagna e stavolta pure Cina, il presidente Usa autorizza, dunque, il rilascio di 50 milioni di barili di greggio, che sono circa 2,5 giorni di consumi negli Stati Uniti, nel tentativo di calmierare i prezzi alla pompa.
Le prove di forza cercate da Biden sulla scena mondiale contrastano con la sua fragilità sul fronte interno – e forse in parte si spiegano con essa -: indici di gradimento in calo, difficoltà a fare varare dal Congresso i piani di rilancio dell’economia – due su tre sono passati, sia pure corretti al ribasso; il terzo, essenzialmente socio-sanitario, cui la sinistra tiene in modo particolare, avanza a stento -. L’inflazione, di cui ci si era dimenticati, erode i redditi. La pandemia, mai affrontata seriamente, specie negli Stati repubblicani, non smette di fare paura.
In questo quadro, Biden esce allo scoperto su Usa 2024: fa dire alla portavoce Jen Psaki che vuole correre per un secondo mandato, nonostante il 20 novembre abbia compiuto 79 anni (ne avrà 82 nel novembre 2024). La dichiarazione, che non convince del tutto, mira soprattutto a spegnere la guerra già apertasi in campo democratico su chi potrebbe essere il candidato se Biden non si ripresentasse.
C’è la corsa a impallinare la sua vice, Kamala Harris, 57 anni, prima donna e prima nera nel ruolo, che sta subendo una campagna di stampa negativa orchestrata da chi punta, ad esempio, su Pete Buttigieg, già in lizza per la nomination nel 2020 – vinse nello Iowa -, ora ministro dei Trasporti, gay dichiarato e padre adottivo con suo marito di una coppia di gemelli; o su Beto O’Rourke, origini ispaniche, che si candida a divenire governatore del Texas sperando di cancellare con un successo la memoria di un filotto di sconfitte.
Scacco all’Opec, mossa non riuscita
Lo scacco all’Opec non riesce, almeno nell’immediato, perché i mercati avevano già anticipato la mossa e l’avevano prevista più ampia: dunque le quotazioni del petrolio salgono invece di scendere. Né è chiaro come l’Opec+ reagirà all’iniziativa: il cartello dei Paesi produttori più la Russia resiste alle pressioni di Washington per un aumento delle forniture, confermando la volontà di attuare il suo piano di aumenti graduali.
In totale, gli Usa e gli altri cinque Paesi coinvolti rilasceranno 65-70 milioni di barili, cioè oltre la metà dei consumi mondiali giornalieri stimati in 100 milioni di barili nell’ultimo trimestre dell’anno. L’ultima volta che si fece ricorso, in modo coordinato, alle riserve strategiche fu nel 2011: gli Stati Uniti e altri 27 Paesi rilasciarono 60 milioni di barili durante la guerra in Libia.
L’obiettivo di Biden è frenare l’inflazione. Una maggioranza degli elettori gliene scarica la responsabilità: i democratici rischiano di pagarne il prezzo alle elezioni di midterm, mentre l’agenda economica della Casa Bianca può naufragare. Il presidente prova quindi a “ridurre i costi per le famiglie”: il ‘caro benzina’ è un fattore pesante nella settimana del Ringraziamento, quando decine di milioni di americani raggiungono in auto parenti e amici.
Lo schiaffo alla Cina sulla democrazia
A coronamento di un lungo lavorio di preparazione diplomatica, martedì 23 novembre Biden ha invitato circa 110 Paesi a un summit virtuale per la democrazia da lui fortemente voluto – anche Barack Obama aveva fatto qualcosa di simile: molta retorica, pocaa concretezza, impatto pratico nullo o quasi -. Al centro dei lavori anche la difesa dei diritti umani violati dai regimi autoritari.
Ovvio, o quasi, che fra gli invitati non vi siano Cina e Russia, che di democrazia e rispetto dei diritti umani danno interpretazioni non condivisibili. Meno ovvio, però, che vi sia Taiwan, se non altro perché il Paese non è ufficialmente riconosciuto dagli Usa: una provocazione a Pechino che, da settimane, non fa altro che ricordare che Taiwan è Cina e che Cina ritornerà.
La lista degli inviti è, comunque, destinata a fare discutere: ci sono gli alleati europei degli Stati Uniti, fra cui l’Italia, ma non l’Ungheria dalla ‘democrazia illiberale’ – c’è, però, la Polonia -; ci sono l’India e l’Iraq e il Brasile, ma non la Turchia, che pure sta nella Nato, né partner arabi degli Stati Uniti come Egitto, Giordania, Arabia Saudita, Emirati e Qatar.
Usa-Russia: le guerre, ibride e no, sui confini
Il summit per le democrazie non migliorerà i rapporti tra Washington e Mosca, già tesi per l’allarme lanciato dall’intelligence statunitense per una possibile invasione dell’Ucraina, dopo l’annessione della Crimea nel 2014 e il conflitto nel Donbass che ha finora fatto 13 mila morti. Il portavoce del Cremlino Dmitri Peskov denuncia “l’isteria” degli Usa, senza escludere provocazioni in coincidenza coin l’ammassamento di circa 100 mila soldati russi vicino al confine con l’Ucraina.
“Quelli che hanno portato le loro forze armate da un lato all’altro dell’Oceano accusano noi di attività militari inusuali sul nostro territorio”, aggiunge sarcastico Peskov,che vede un’unica “via di uscita”: “La Nato deve cessare le sue provocazioni e l’avanzamento delle sue infrastrutture politiche e militari vicino ai nostri confini… E smetterla di fornire armi moderne all’Ucraina, ispirandole azioni folli”.
Ma le guerre ibride, che sono la nuova dimensione della Guerra Fredda stile 21° Secolo, si combattono anche su altri confini Est/Ovest: ad esempio, su quello tra Bielorussia e Polonia, con il braccio di ferro sui migranti che costa sofferenze e innesca tragedie.
G20/Cop26/Vertice Usa-Cina: 1 15 giorni che illusero il Mondo
Chi s’era illuso che sarebbero stati i 15 giorni “che sconvolsero il Mondo”, parafrasando il titolo del bel libro di John Reed sulla Rivoluzione bolscevica, ci sarà rimasto male. Due settimane abbondanti di slalom diplomatico ai massimi livelli, il G20 a Roma il 30 e 31 ottobre, la Cop26 a Glasgow fino a domenica 14, infine il vertice virtuale Usa-Cina nella nostra notte tra lunedì e martedì 15 e 16 novembre, hanno sortito “parole, parole, parole”, come dicevano Mina e Alberto Lupo nel 1972, oppure un “blablabla”, come dice più terra terra Greta Thunberg oggi.
Chi contava che ne sarebbe uscito un Mondo migliore, più coeso e solidale nella lotta contro la pandemia e più sicuro e meno ‘caldo’ sul fronte clima, avrà ormai rinfoderato le speranze, in parte alimentate dalle trionfalistiche e partigiane letture italiane del G20 ‘in casa’.
L’incontro virtuale tra i presidenti Usa Biden e cinese Xi è stato lungo – ben tre ore, pausa compresa -, ma s’era fatto pure attendere a lungo: 11 mesi, tanto il tempo passato da Biden alla Casa Bianca senza incontrare l’omologo cinese, in un crescendo di screzi e di tensioni.
A parte il gesto non protocollare di Xi, che ha fatto ciao con la mano al “vecchio amico” – i due si erano già incontrati più volte, la prima quando Xi era ancora vice-presidente -, il vertice Usa-Cina ha prodotto solo una generica promessa a migliorare la cooperazione – del resto, fare peggio vuol dire litigare di brutto, se non farsi la guerra – e a mantenere le linee di dialogo aperte. Ma sui temi caldi, questioni commerciali, cyber-sicurezza, Taiwan, diritti umani, non ci sono stati passi avanti, mentre le due Super-Potenze navigano entrambe in acque perigliose, tra rallentamenti della crescita e aumento dell’inflazione.
Lo stesso patto sul clima tra Washington e Pechino, annunciato a Glasgow con enfasi, e letto con superficiale entusiasmo dai media di mezzo mondo, rivela una disponibilità alla collaborazione positiva, ma non indica obiettivi precisi. Tant’è vero che non è servito a dare mordente alle conclusioni della Cop26, dove Usa e Cina si sono arresi senza troppa resistenza alle pretese dell’India sul carbone e alle reticenze di molti altri.
Il Vertice tra Biden e Xi proietta più ombre che luci. Certo, non bisogna sopravvalutare il fatto che l’incontro sia stato solo virtuale e non in presenza. Ma è vero che Usa e Cina danno l’impressione di gettarsi a vicenda granelli di sabbia, anzi bastoni, tra le ruote: Washington solleva, a ragione, la questione del (mancato) rispetto dei diritti umani nello Xinjiang, in Tibet, a Hong-Kong. Pechino torna a evocare la riunificazione di Taiwan alla Madre Patria. Entrambe alzano il livello del confronto militare e strategico nel Mar cinese meridionale.
C’è un po’ l’impressione che Biden e Xi usino la loro fermezza reciproca per puntellare posizioni non fortissime in patria in questo momento: il cinese deve rilanciare un’economia che rallenta; l’americano è al minimo storico dei suoi consensi perché l’inflazione galoppa e la crescita è inferiore alle attese.