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G20: Afghanistan, un Vertice fuori tempo; per Cina e Usa, è l’ora di Taiwan

Scritto per La Voce e il Tempo uscito il 14/10/2021 in data 17/10/2021 e, in altra versione, per il Corriere di Saluzzo del 14/10/2021

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Dopo il G20 straordinario sull’Afghanistan, a Roma, sotto presidenza di turno italiana, il premier Mario Draghi appare soddisfatto della “prima risposta multilaterale” alla crisi scoppiata a metà agosto, dopo la presa di Kabul da parte dei talebani: “Abbiamo affidato un mandato all’Onu perché coordini la risposta all’emergenza e perché agisca anche direttamente”.

C’è un impegno comune, nella “consapevolezza che la situazione umanitaria è gravissima”, sottolinea il presidente del Consiglio. Ma, al di là dell’invio di aiuti e della difesa dei diritti – velleitaria -, non c’è una linea di condotta comune verso l’esecutivo dei talebani, tutti uomini e qualche terrorista ricercato.

In realtà, il G20 si riunisce – per modo di dire: l’incontro è virtuale – sull’Afghanistan due mesi dopo la presa di Kabul, mentre i Grandi stanno comunque procedendo in ordine sparso: ministri talebani sono ricevuti a Mosca e a Pechino; a Doha gli Usa e pure l’Ue intavolano negoziati; e la Russia ospiterà un summit con i talebani la prossima settimana.

E’ un Vertice ‘fuori tempo’ quello sull’Afghanistan, che avrebbe avuto forza e senso tenere a ridosso degli eventi – ma non ci fu consenso a farlo – e dove contano più le assenze delle presenze: non ci sono i presidenti russo e cinese Vladimir Putin e Xi Jinping e si fanno rispettivamente rappresentare dal ministro degli Esteri o addirittura da un vice-ministro degli Esteri. E i media Usa non dedicano all’incontro di Roma neppure una ‘breaking news’: l’attenzione è altrove.

L’area calda delle relazioni internazionali s’è spostata da una settimana nel Pacifico, a Taiwan, cavallo di ritorno delle tensioni Usa-Cina. C’è stato un ‘botta e risposta’ tra Pechino e Taipei: Xi parla a nuora (la presidente di Taiwan Tsai Ing-wen) perché suocera (il presidente Usa Joe Biden) intenda. Taiwan – ammonisce il presidente cinese – è “una questione interna alla Cina e non ammette interferenze esterne”.

L’escalation delle tensioni potrebbe stemperarsi dopo il vertice bilaterale virtuale entro fine anno concordato tra Biden e Xi, che dovrebbero pure partecipare al Vertice del G20 di routine, sempre sotto presidenza di turno italiana il 30 e 31 ottobre – formula probabilmente mista, in presenza e virtuale -. L’intesa di massima sul bilaterale Biden – Xi è stata annunciata dopo un lungo colloquio tra il consigliere alla sicurezza nazionale Usa Jake Sullivan e il capo della diplomazia del Pcc (Partito comunista cinese) Yang Jiechi.

E’ un segnale di distensione – o almeno di dialogo – per porre dei ‘guardrail’ alle crescenti tensioni tra le due superpotenze: la sfida tra democrazia e autocrazia spinge la Cia a riorganizzarsi concentrando l’attenzione sul Dragone.

Il Vertice del G20 di Roma sull’Afghanistan

Molto annunciata e – troppo – a lungo preparata, la riunione del G20 è preceduta da una mossa dell’Ue, rappresentata dai presidenti del Consiglio e della Commissione europei Charles Michel e Ursula von der Leyen: la messa a disposizione d’un miliardo di euro d’aiuti al popolo afghano. “Dobbiamo fare tutto il possibile per evitare un grave collasso umanitario e socio-economico” e “dobbiamo farlo in fretta”, dice la presidente della Commissione.

Lo stanziamento prevede 250 milioni di euro ‘freschi’, che vanno ad aggiungersi ai 300 milioni già stanziati, mentre il resto delle risorse andrà ai Paesi vicini per affrontare l’emergenza migratoria: l’approccio, discutibile, ricorda il ricco contratto da sei miliardi di euro con la Turchia perché tenga i rifugiati siriani.

“Il popolo afghano non deve pagare il prezzo delle azioni dei talebani”, afferma al G20 von der Leyen: l’obiettivo è far arrivare gli aiuti direttamente alla popolazione attraverso le Ong, evitando di farli transitare dai talebani. Una linea condivisa dal presidente Usa Biden, che dal canto suo ribadisce l’impegno a promuovere in Afghanistan il rispetto dei diritti umani, a partire dalle categorie più fragili come donne e minoranze, e mette sul piatto 300 milioni di dollari.

Il Vertice in video-conferenza – allargato a Olanda e Spagna, Singapore e Qatar, oltre che a diverse organizzazioni internazionali, tra cui Onu, Banca mondiale e Fondo monetario internazionale – è stato “soddisfacente e fruttuoso”, dice Draghi, rilevando la “convergenza di vedute sulla necessità d’affrontare l’emergenza umanitaria”.

Delle assenze al massimo livello russa e cinese, il presidente di turno del Vertice dice: “Che io sappia non erano dovute a motivi particolari di politica estera”, giudicando, però, “essenziale che Russia e Cina partecipino al G20” in presenza a Roma il 30-31 ottobre. Sull’Afghanistan, però, ci sarà un consulto a Mosca la prossima settimana, cui sono invitati i talebani; e lì non si parlerà solo di interventi umanitari e di diritti umani, ma anche di assetti geo-politici e contrasto al terrorismo.

Se sull’urgenza degli aiuti e dell’apertura di corridoi umanitari, con il rigido inverno afghano ormai alle porte, sono tutti d’accordo, restano da sciogliere i nodi delle risposte alle richieste talebane, prima fra tutte il riconoscimento del loro governo e lo stop alle sanzioni unilaterali loro imposte.

A Roma, la Cina invita i partner ad agire “sulla base del rispetto della sovranità, dell’indipendenza e dell’integrità territoriale dell’Afghanistan” e a non “imporre la propria ideologia agli altri”; e chiede ai Paesi che ancora impongono sanzioni all’Afghanistan di “revocarle prima possibile”. Altra questione aperta è la lotta al terrorismo, da affrontare, dice Draghi, sradicando il traffico di droga come fonte di finanziamento.

Dal terreno, giungono notizie di attentati, repressioni, atti di violenza e ritorno agli Anni Novanta. Martedì, un attivista della società civile è stato ucciso a Jalalabad, roccaforte dell’Isis-K, l’ultimo – per ora – episodio in ordine di tempo d’una scia di omicidi mirati, esplosioni letali indiscriminate e ‘neutralizzazioni’ di presunti terroristi che va avanti da un mese e mezzo.

Al centro del Vertice, oltre agli aiuti umanitari, la tutela dei diritti, che nel documento di sintesi finale compare in cima alla lista dei principi condivisi. “E’ stato sollevato da tutti – spiega Draghi – il problema dei diritti delle donne, di garantire loro l’accesso all’istruzione e di non tornare indietro di 20 anni … Affrontare la crisi umanitaria richiederà contatti con i talebani, ma questo – rileva ancora il premier – non significa un loro riconoscimento”.

Sul fronte del rischio di un’ondata di profughi dall’Afghanistan, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan avverte che il suo Paese “non può farsi carico di un nuovo flusso di migranti” afghani. Se dovesse accadere, “ne sarebbero colpiti anche i Paesi europei”. Un appello al coordinamento che Draghi definisce “interessante”, ma su cui non c’è ancora un accordo in seno al G20 – e neppure nell’Ue -.

Taiwan: un anniversario della Rivoluzione con i botti

Ma le tensioni internazionali, in questo momento, sono altrove, nel Pacifico, dove Cina e Usa non si limitano ad affrontarsi economicamente e commercialmente, ma si sfidano a colpi di spillo politici e militari. Un gioco potenzialmente pericoloso, di cui al Vertice straordinario del G20 di Roma non si parla.

Nell’anniversario dei 110 anni dalla Rivoluzione cinese del 1911, quella che segnò la fine dell’Impero, Pechino riattizza la ‘questione taiwanese’, di solito tenuta in sonno, ma mai risolta, come monito ogni qual volta c’è un sussulto di tensione nel Mar cinese meridionale o nei rapporti con gli Usa. E le ultime settimane sono state zeppe di segnali in tal senso, dalla creazione dell’Aukus, l’alleanza nel Pacifico tra Usa, Australia e Gran Bretagna in funzione anti-cinese, all’inasprimento dei toni di Washington verso Pechino.

Per contro, secondo Taiwan, quasi 150 aerei militari cinesi hanno violato la sua zona di difesa aerea all’inizio di ottobre, con un picco di 56 unità lunedì 4, fra cui bombardieri con capacità nucleare: attività finalizzate a logorare le forze armate taiwanesi testandone la capacità di risposta.

Taiwan è un’isola che a lungo chiamammo Formosa: 36 mila kmq, è grande come il TriVeneto ed ha quasi 23 milioni di abitanti, a 180 km dalle coste della Cina continentale, che ha un miliardo e 350 milioni di abitanti e una superficie pari quasi a quella di tutta l’Europa, 9.573.000 kmq.

L’isola fu l’ultimo rifugio del Kuomintang di Ciang Kai-shek, sconfitto dai comunisti di Mao Tse-tung nella guerra civile dal 1946 al 1950. Da allora, Pechino ne rivendica la sovranità –l’arcipelago era cinese dal 1895, dopo essere stato strappato ai giapponesi-, mentre Taipei pretende di costituire la Cina legittima – e fino al 1971 lo fu, almeno all’Onu -. Ma ormai sarebbe già contenta di vedere riconosciuta la propria indipendenza: solo 15 Paesi al Mondo hanno stretto relazioni diplomatiche – fra gli altri, il Vaticano, ma non gli Usa e nessun Paese Ue -.

Xi dice: “Il secessionismo di Taiwan è il più grande ostacolo alla riunificazione nazionale … che si farà”. E aggiunge: “La riunificazione nazionale con mezzi pacifici serve al meglio gli interessi della nazione cinese nel suo insieme, compresi i connazionali di Taiwan”. “I compatrioti di qua e di là dello Stretto di Taiwan dovrebbero stare dalla parte giusta della storia … Nessuno dovrebbe sottovalutare la determinazione, la volontà e la capacità del popolo cinese nel salvaguardare sovranità e integrità territoriale”.

Washington, che non riconosce Taiwan, ma le fornisce armi per difendersi da un eventuale attacco, tace. La replica di Taipei è flebile: “Solo i 23 milioni di taiwanesi hanno diritto di decidere il futuro e lo sviluppo” dell’isola, dice il Consiglio per gli affari con la Cina. L’isola si “sforzerà di mantenere lo status quo di pace e stabilità attraverso lo Stretto di Taiwan”, si legge in una nota, che invita Pechino ad abbandonare le misure provocatorie e a pensare sempre più apertamente alla chiave dell’interazione tra “pace, reciprocità, democrazia e dialogo”.

Al sussulto di tensioni degli ultimi giorni ha anche contribuito uno scoop del Wall Street Journal, che ha rivelato che unità delle forze speciali Usa e due dozzine di marines sono da almeno un anno a Taiwan per addestrare in segreto le truppe locali. La presenza dei militari non viola i patti in atto tra Washington e Pechino, ma la Cina ha subito fatto sapere che adotterà “tutte le misure necessarie per salvaguardare la sua sovranità e l’integrità territoriale”. Il portavoce del Ministero degli Esteri Zhao Lijian invita gli Usa “a riconoscere l’elevata sensibilità della questione di Taiwan, ad attenersi al principio della ‘Unica Cina’, a interrompere la vendita di armi all’isola e i contatti militari in modo da non danneggiare seriamente relazioni bilaterali, pace e stabilità nello Stretto di Taiwan”.

Gli Stati Uniti forniscono alla difesa di Taiwan, fra l’altro, missili e aerei da combattimento. L’invio dei militari è una conferma dei timori di Washington per un possibile attacco all’isola ed è un indice del cambio d’atteggiamento degli Usa, rispetto a remote dichiarazioni congiunte Usa-Cina del 1972, del 1979 e del 1982. Washington non ha mai promesso a Pechino a non mettere truppe a Taiwan, ma il comunicato congiunto di Shanghai del 1972, legato alla storica visita di Richard Nixon e all’incontro con Mao, “pone l’obiettivo finale del ritiro di tutte le forze e le installazioni militari statunitensi da Taiwan man mano che la tensione nell’area diminuisce”. Le ultime truppe americane lasciarono Taiwan nel 1979: il loro ritiro spianò la strada allo stabilimento di piene relazioni diplomatiche tra Washington e Pechino, a spese di Taipei.

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Giampiero Gramaglia, nato a Saluzzo (Cn) nel 1950, è un noto giornalista italiano. Svolge questa professione dal 1972, ha lavorato all'ANSA per ben trent'anni e attualmente continua a scrivere articoli per diverse testate giornalistiche. Puoi rimanere connesso con Giampiero Gramaglia su Twitter

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