Autoritari, negazionisti, cospirazionisti, ferocemente di destra, i presidenti della generazione Trump non se la passano bene: dopo la sonora sconfitta del magnate loro capofila nelle presidenziali Usa del novembre 2020, il brasiliano Jair Messias Bolsonaro viaggia sull’orlo dell’impeachment e verso una batosta l’anno prossimo, ad opera di Inacio Lula da Silva, l’avversario di sinistra ‘fuori gioco’ nel 2018 per una montatura giudiziaria; e il filippino Rodrigo Duterte accetta di farsi da parte, dopo molte esitazioni, rispettando la Costituzione, che prevede un solo mandato presidenziale di sei anni.
Non che tutti i leader autoritari di questo Mondo se la passino male. Anzi, lo stato di salute politica dei vari Erdogan, al Sisi, Putin, Xi e compagnia bella – l’elenco degli autocrati e simili sarebbe lunghissimo – è piuttosto buono. Ma il crollo in filotto dei ‘trumpiani di ferro’ è buon segno. Come anche le elezioni tedesche del 26 settembre fanno intravvedere, dopo la pandemia ci potrebbe essere una ‘svolta a sinistra’ moderata sulla scena mondiale, quasi che l’emergenza sanitaria abbia lasciato un surplus di bisogno di solidarietà, tolleranza, equità, giustizia.
Ad accrescerlo, c’è il disagio etico creato dalla diffusione dei Pandora Papers, che sciorinano trucchi e inganni dei ricchi e potenti. Spesso, non c’è niente di illegale, ma solo l’uso spregiudicato delle opportunità offerte da legislazioni ‘colabrodo’, quando c’è da chiudere un occhio sui profitti e sui maneggi dei famosi d’ogni genere, politici, finanziari, dello sport e dello spettacolo.
I Pandora Papers – così chiamati dal Consorzio Internazionale dei Giornalisti Investigativi (Icij) che li ha elaborati sulla base di 11,9 milioni di file riservati – scovano gli averi celati in paradisi fiscali di 35 leader mondiali e di migliaia di vip e miliardari del Pianeta: dal re di Giordania Abdullah all’ex premier britannico Tony Blair, dal presidente ucraino Volodymyr Zelensky – un cultore dell’onestà – all’amante del presidente russo Vladimir Putin, da Julio Iglesias a Claudia Shiffer passando per Shakira.
L’inchiesta, frutto del lavoro di due anni di 600 giornalisti e di 150 testate (L’Espresso in Italia), apre uno spaccato su oltre 29.000 conti offshore e va oltre i Panama Papers del 2016, provenienti dalla documentazione di un singolo studio legale, il Mossack Fonseca. I Pandora Papers analizzano dati che provengono da 14 diverse entità di servizi finanziari in Paesi e territori fra cui la Svizzera, Cipro, Singapore, Il Belize, le Isole Vergini Britanniche, ma pure, negli Stati Uniti, il South Dakota e il Delaware del presidente Usa Joe Biden. I documenti esaminati sono datati fra il 1996 e il 2020, anche se alcuni risalgono agli Anni 70. Prendi i soldi e mettili all’estero è una costante che attraversa i tempi ed erode la fiducia della gente nei leader, nei campioni, nei ‘sex symbols’.
Duterte, il presidente sceriffo dai modi spicci (e criminali)
Dopo mesi di tentennamenti, il presidente delle Filippine Rodrigo Duterte s’è deciso: non cercherà d’ottenere un secondo mandato ‘mascherato’, in barba alla Costituzione che ne prevede uno solo, e abbandonerà la politica, una volta raggiunto il suo termine, il giugno prossimo, “nel rispetto – dice – del volere del popolo”.
L’idea era quella di candidarsi alla vice-presidenza nelle elezioni del 2023. L’opposizione aveva già annunciato che avrebbe fatto ricorso alla Corte Suprema contro tale progetto, che echeggia la mossa di Putin nel 2008, quando per un mandato invertì i ruoli con il suo premier Dmitry Medvedev.
Alessandro Ursic, che copre per l’ANSA il Sud-Est asiatico, osserva, però, che la scelta di Duterte, “vulcanico presidente di un arcipelago dove rimane popolarissimo, spiana la strada alla candidatura della figlia Sara, che, una volta eletta, potrebbe proteggere il padre dalla giustizia per le migliaia di morti causati dalla sua sanguinosa guerra al narcotraffico”.
Sara dovrà vedersela, fra gli altri, con il popolarissimo ex campione di pugilato Manny Pacquiao, che ha appena abbandonato il ring della boxe per salire su uno diverso. Pacquiao, idolo sportivo nazionale, campione del mondo in otto categorie di peso diverse, era un sostenitore di Duterte, ma di recente gli s’è rivoltato contro – il che non giova alla sua popolarità, dopo una mediocre carriera da senatore -. A livello di sparate populiste, però sarebbe un degno erede del presidente sceriffo.
In un sistema elettorale dove presidente e vicepresidente sono eletti separatamente, spiega Ursic, Duterte, 76 anni, poteva eludere il divieto costituzionale di un secondo mandato candidandosi come numero due d’un suo fedelissimo, il senatore Christopher Go, che s’è ora candidato a vice. Il che corrobora la prospettiva che Sara, la figlia di Duterte, 42 anni, popolare sindaca del feudo familiare di Davao, punti alla presidenza.
“Il sentimento preponderante fra i filippini è che la mia elezione a vice-presidente sarebbe un modo di aggirare la legge e lo spirito della costituzione. Dunque, annuncio il ritiro dalla politica”, ha detto Duterte padre, mettendo apparentemente fine a una telenovela che ha dominato i media filippini nell’ultimo mese.
Diversi analisti predicano, però, cautela: Duterte, maestro nel tenere l’attenzione dei media su di sè, fece dichiarazioni del genere per mesi, prima di candidarsi nel 2015, dopo essersi costruito la fama di leader duro e incorruttibile trasformando la sua Davao – terza città del Paese – da centro infestato dal crimine a modello di efficienza.
Ma non sorprende neppure che Duterte voglia farsi da parte ora, popolare come quando fu eletto: soffre di dolori alla testa e alla schiena che lo hanno portato ad abusare dell’oppioide analgesico Fentanyl; e guidare il Paese fino al 2028 sarebbe uno sforzo enorme e non ne varrebbe la pena, specie se a succedergli fosse Sara. Con la figlia al potere, il padre sarebbe pressoché blindato rispetto alle sempre più insistenti indagini della magistratura – quella nazionale e la Corte penale internazionale – sugli almeno 8mila morti della ‘guerra alla droga’ contro piccoli spacciatori e consumatori nelle baraccopoli lanciata dal presidente subito dopo la sua elezione.
Dal 2022, le Filippine non saranno più guidate in prima persona da un leader controverso e contraddittorio: un figlio privilegiato – il padre era governatore della provincia di Davao -, cresciuto da attaccabrighe e lanciatosi in politica come difensore del popolo, fautore della giustizia sommaria eppure descritto come uno dalla lacrima facile, amante di moto fragorose e appariscenti ma mai attirato dal lusso come tanti suoi predecessori. Duterte è stato una continua fonte di sparate verbali dal linguaggio più che colorito: il “figlio di …” indirizzato a Barack Obama e a papa Francesco, molteplici commenti sessisti, parole minacciose contro giornalisti e rivali politici, in un crescente clima autoritario.
Bolsonaro, il presidente ‘untore’ negazionista e omofobo
In estate, il presidente brasiliano Jair Messias Bolsonaro ha incassato in Congresso due smacchi che prefigurano una sconfitta nelle elezioni presidenziali dell’anno prossimo, quando l’ex capitano dell’esercito, autoritario e omofobo, cercherà di ottenere un secondo mandato. Tutti i sondaggi lo danno oggi battuto, specie se il suo rivale dovesse essere l’ex presidente Inacio Lula da Silva, leader della sinistra, escluso dalla corsa nel 2018 e gettato in carcere con una condanna per corruzione poi annullata, frutto di un’inchiesta politicamente motivata.
E, a settembre, alla già scarsa popolarità internazionale del leader brasiliano, negazionista malgrado sia stato seriamente malato di Covid, non ha giovato la sua performance all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, dove il passaggio della delegazione di Brasilia ha lasciato una scia di contagi, dando al presidente un’immagine da untore globale
Il Congresso ha revocato la legge sulla sicurezza nazionale in vigore dalla dittatura militare, durata dal 1964 al 1985: il Senato al completo ha varato con un voto finale un disegno di legge di riforma del codice penale, che abroga norme imposte nel 1983 dal regime militare che, fra l’altro, autorizzavano a perseguire penalmente gli oppositori politici.
E sempre in Congresso è mancata la maggioranza necessaria per modificare la legge elettorale come desiderato dal presidente, che voleva promuovere il voto manuale su quello elettronico, sulla scorta dell’ipotetico rischio ‘alla Trump‘ di fantomatici brogli. Bolsonaro fa già filtrare l’esplicita minaccia di non riconoscere nel 2022 l’esito del voto, se la sua proposta resterà lettera morta.
A inasprire l’atteggiamento del Congresso contro il presidente era stata una parata militare davanti ai palazzi del potere di Brasilia, proprio in parallelo ai voti su codice penale e riforma elettorale: l’opposizione l’ha considerata un tentativo di intimidire deputati e senatori, mentre analisti s’interrogano su possibili interferenze dell’apparato militare sul processo elettorale.
A compromettere le possibilità di conferma di Bolsonaro, è in primo luogo la gestione negazionista e disastrosa della pandemia: il Covid continua a fare migliaia di morti al giorno e decine di migliaia di contagi. Secondo i dati della Johns Hopkins University, il Brasile è terzo al Mondo per il numero dei casi dietro Usa e India, con oltre 21 milioni e mezzo, ed è secondo per quello dei decessi dietro gli Usa, con 600 mila. E la pandemia ha aggravato la crisi economica, con l’inflazione al massimo da quasi vent’anni.
Le votazioni al Senato e alla Camera sono state la cartina di tornasole della crisi istituzionale in cui il Brasile è precipitato, con scambi di accuse pesanti tra il presidente e la magistratura, in particolare quelle del Tribunale superiore elettorale e della Corte suprema, entrambe critiche sulla Proposta d’emendamento costituzionale.
Bolsonaro s’è a lungo fatto forte dell’asse con Trump per una sorta di ‘internazionale della destra’, progetto confermato da una missione negli Usa del figlio deputato del presidente brasiliano, Eduardo, presso il magnate ex presidente Usa e il suo stratega elettorale Steve Bannon – l’incontro con Bannon è avvenuto a un evento nel South Dakota -. Bolsonaro jr ha invitato Trump in Brasile per un seminario della Conferenza di azione politica conservatrice.
Eduardo Bolsonaro, che è stato capo della Commissione Esteri della Camera brasiliana, è delegato dal padre ai contatti internazionali: promuove la creazione d’un forum dei partiti di estrema destra. E Bannon lo ha scelto come coordinatore latino-americano del suo Movimento, che riunisce organizzazioni di estrema destra a livello globale. Ma l’asse Bolsonaro – Trump perde solidità man mano che il ricordo dell’ex presidente Usa sbiadisce.
L’effetto globale dei Pandora Papers
La pubblicazione dei Pandora Papers coinvolge, in sospetti di corruzione e di malversazione, leader di tutto il Mondo e di tutte le tendenze: il re di Giordania Abdulla ha usato varie società fantasma per acquistare proprietà di lusso a Malibu, in California, per oltre cento milioni di dollari; in Africa, il presidente del Kenya Uhuru Kenyatta, che vuole essere un nemico della corruzione, e alcuni suoi stretti familiari hanno creato almeno sette entità offshore per nascondere denaro e beni immobiliari per oltre 30 milioni di dollari; in Europa, sono toccati fra gli altri la famiglia reale britannica e l’ex premier Blair e pure il premier ceco Andrej Babis, politico miliardario, ma populista e antagonista dell’élite europea. E Biden, che si batte per un fisco trasparente, è imbarazzato dalla rivelazione che il South Dakota e il suo Delaware sono paradisi fiscali: nulla da invidiare alle “opache giurisdizioni in Europa e nei Caraibi”. Scagli la prima pietra contro i Duterte e i Bolsonaro chi non ha nell’occhio una pagliuzza di profitto disonesto.