La Cina stende intorno al Mondo una rete di relazioni commerciali e di basi militari: la Nuova Via della Seta è uno strumento di potere e d’influenza, non solo d’affari e di traffici. Gli Usa reagiscono creando intorno alla Cina nel Pacifico una cintura protettiva: l’Aukus, alleanza militare tra Australia, Regno Unito e Stati Uniti, è succedanea, anche nella struttura della sigla, all’Anzus, tra Australia, Nuova Zelanda e Stati Uniti, ed è pronta ad aprirsi, se lo vorranno, a Giappone e Corea del Sud. Obiettivo: mettere un freno all’egemonia di Pechino nel Mar cinese meridionale, che si manifesta con le pretese sulle Spratly, isolotti a sud delle Filippine, trasformati da colate di cemento in una sorta di portaerei, e con l’ambizione di riunire alla madre patria Taiwan, come già accaduto con Hong-Kong e Macao.
La mossa del presidente Joe Biden non è certo improvvisata – ci vogliono mesi di negoziati, per mettere in piedi un accordo come quello dell’Aukus -. E se l’adesione della Gran Bretagna non è sorprendente – uscita dall’Ue, Londra ha forse nostalgia del suo ruolo di potenza mondiale -, quella dell’Australia colpisce perché Canberra aveva sempre mirato a un certo equilibrio nei suoi rapporti con Washington e Pechino, anche se non aveva mai fatto mancare il suo supporto militare agli Usa dall’Afghanistan all’Iraq.
Secondo esperti citati dalla Cnn, la mossa del premier australiano Scott Morrison ha implicazioni potenzialmente negative per il Paese oceanico: da una parte, lo pone in contrasto con la Cina, suo maggiore partner commerciale; dall’altra, ne affida la sicurezza alla protezione statunitense, proprio quando la vicenda afghana suscita dubbi sull’affidabilità di Washington come alleato.
Morrison aveva puntato sul rapporto diretto con Donald Trump e cerca di fare lo stesso con Biden, incurante delle frizioni che la nascita dell’Aukus crea, oltre che con la Cina, con la Nuova Zelanda, che ha già chiuso i suoi porti ai nuovi sottomarini nucleari australiani, e con l’Unione europea, e specialmente con la Francia, colpita negli interessi commerciali dalla cancellazione della commessa sui sottomarini attribuita ora ai nuovi partner.
La sfida dell’Australia alla Cina, giudicata dagli analisti “non necessaria”, era già stata anticipata dalle recriminazioni australiane sull’origine del Covid-19, il “virus cinese” nella retorica trumpiana condivisa da Morrison, che mette in dubbio l’origine della pandemia e sollecita a Pechino chiarezza in merito.
L’irritazione francese, con la cancellazione d’un evento ieri all’ambasciata di Francia a Washington, e la freddezza europea sono comprensibili: Biden, che sembrava l’amico americano ritrovato, dopo la parentesi di Trump, taglia fuori l’Ue da trattative che hanno un impatto sulla sicurezza collettiva e ne danneggia in modo diretto il Paese membro geo-politicamente più rilevante – la Francia è l’unico dei 27 a sedere nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu con diritto di veto e a possedere l’atomica -. Inoltre, rischia di favorire un ulteriore riavvicinamento tra Russia e Cina: Mosca e Pechino hanno, nel Pacifico, priorità e obiettivi diversi, anche territoriali – i russi guardano alle Curili, isole contese con il Giappone -, ma identiche controparti: gli Stati Uniti e i loro alleati. Senza contare la presenza nell’area di una variabile totalmente inaffidabile: la Corea del Nord di Kim Jong-un, comunque più sensibile ai desideri cinesi che ai diktat americani.
La reazione di Pechino all’Aukus è stata ferma e abile. Il presidente Xi Jinping ha affermato che la Cina “non permetterà mai a forze esterne di interferire negli affari interni dell’area pacifica e dei suoi Paesi”. Parlando in video-conferenza al Vertice dell’Organizzazione per la cooperazione di Sghanghai, cui partecipano Cina e Russia, con India, Pakistan e vari Paesi dell’Asia centrale e dov’è appena entrato l’Iran, Xi ha aggiunto: “Dovremmo sostenerci a vicenda … e tenere saldamente nelle nostre mani il futuro e il destino del nostro sviluppo e del nostro progresso”.
Contestualmente, la Cina ha ufficialmente presentato domanda di adesione al ‘Comprehensive and Progressive Trans-Pacific Partnership Agreement’, l’accordo di libero scambio di 11 Paesi dell’area Asia-Pacifico evoluzione del TPP (Trans-Pacific Partnership) voluto dall’allora presidente Usa Barack Obama proprio per contenere la Cina e da cui Trump s’era poi ritirato nel 2017. Adesso, Pechino prova a riempire il vuoto lasciato dagli Stati Uniti, in funzione anti-americana.
Nel 2018, dopo negoziati successivi all’uscita degli Usa dal TPP, Australia, Brunei, Canada, Cile, Giappone, Malesia, Messico, Nuova Zelanda, Perù, Singapore e Vietnam si unirono e realizzarono il CPTPP, uno strumento per sostenere i commerci nell’area nonostante la guerra dei dazi tra Usa e Cina. Pechino punta all’adesione per rafforzare la sua posizione commerciale, già dominante, nell’area, mentre Washington sembra volere portare il confronto sul terreno geo-politico e militare. Forse perché la partita economica è persa.