Vent’anni dopo l’11 Settembre 2001, la fine della guerra in Afghanistan, una Caporetto dell’Occidente, ridisegna la mappa geo-politica del XXI Secolo: la Cina continua a vedere accresciuta la propria influenza, economico-commerciale e politico-militare; e la Russia torna a essere protagonista, con Vladimir Putin che si ritaglia un ruolo da grande saggio – “Guardate che cosa succede a voler imporre ad altri i propri modelli” -; gli Stati Uniti escono ridimensionati, ma riducono anche le proprie ambizioni di Super-Potenza globale e di ‘poliziotto del mondo; alcuni attori regionali, come la Turchia e il Pakistan, sgomitano perché vogliono acquisire visibilità, come già facevano, tra Golfo e Medio Oriente, Iran e Arabia Saudita.
E l’Unione europea? Sul Corriere della Sera, Franco Venturini la descrive, con la consueta lucida analisi, al bivio tra autonomia strategica e irrilevanza globale; ma, in realtà, a parte discorsi e appelli retorici, come quelli del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, o del presidente francese Emmanuel Macron, o del presidente del Consiglio europeo Charles Michel, non si vedono progressi verso una politica estera e della difesa comune, senza le quali l’Ue potrà magari continuare a essere un gigante economico-commerciale, ma non sarà un’entità rilevante sulla scena internazionale e della sicurezza.
Micragnosa e sovranista in molte sue componenti nazionali e politiche, l’Unione fa fatica ad esprimere anche solo una volontà di solidarietà. Già uscita mortificata dalla crisi siriana, l’Ue rischia di esserlo pure da quella afghana: oggi siamo tutti afghani, come nel 2015 eravamo tutti siriani; ma poi ‘affittammo’ milioni di profughi alla Turchia e ora ci proviamo con il Pakistan o il Tagikistan; e ce ne laviamo le mani, pagando per non essere disturbati a casa nostra. Pilato 2020, con tanti saluti ai diritti umani e alle radici cristiane, che proprio gli ostili alla solidarietà sbandierano con più vigore.
Facendo il quadro dei cambiamenti innescati dall’11 Settembre, e spesso arenatisi strada facendo, il Washington Post avanza anche dubbi su quello che, fino alla rotta afghana, appariva un punto certo: l’indebolimento di al Qaida, l’organizzazione terroristica fondata da Osama bin Laden, che si trovò catapultata – scrive il giornale – da una relativa oscurità e una notorietà universale: quando il World Trade Center crollò e il Pentagono bruciava, apparve chiaro che Washington aveva sottostimato la potenziale minaccia del gruppo integralista islamico, guidata dall’esponente d’una ricca famiglia saudita andato a infrattarsi in Afghanistan e che sognava di riunire l’Islam – obiettivo fallito – e di distruggere “il mito dell’invincibilità Usa” – obiettivo centrato -.
Il primo anniversario senza guerra
L’America commemora il XX anniversario dell’11 Settembre: il primo ‘di pace’, cioè senza la guerra in Afghanistan lanciata, poche settimane dopo gli attentati, contro Al-Qaida (e il regime dei talebani che l’avevano ospitata e protetta) e destinata a divenire il più lungo conflitto della storia Usa. Il presidente Joe Biden può atteggiarsi a ‘comandante in capo’ che ha chiuso un’era; ma non s’è ancora posata la polvere delle polemiche per un ritiro caotico e umiliante, insieme all’allerta (rafforzata) per la minaccia di attentati terroristici.
Il presidente visita con la first lady Jill tutti e tre i siti degli attacchi dei dirottatori, come fece Barack Obama nel X anniversario: il memoriale di Ground Zero, sul luogo dove sorgevano le Torri Gemelle centrate e abbattute ciascuna da un aereo; quello di Shanksville, Pennsylvania, dove la rivolta dei passeggeri fece precipitare il velivolo che i dirottatori volevano probabilmente dirigere sul Campidoglio; e il Pentagono, bersaglio del quarto e ultimo aereo dirottato.
Sulla ricorrenza dell’evento più tragico e più doloroso della storia contemporanea dell’Unione, s’allunga l’ombra della crisi afghana e dei suoi riflessi sulla sicurezza occidentale e mondiale. Il capo di Stato Maggiore dell’Esercito Usa, generale Mark Milley, avverte: “Non so dire se i talebani riusciranno a governare e a consolidare il loro potere, ma vedo in Afghanistan buone probabilità d’una guerra civile estesa, che potrebbe portare a una ricostituzione di al-Qaida o a una crescita dell’Isis o di altri gruppi terroristici”; e così il terrorismo potrebbe “risorgere” nell’area “entro 12, 24 o 36 mesi”. Come dire: per certo, non sappiamo nulla, ma è meglio stare sul ‘chi vive?’.
Nei giorni scorsi, Biden ha ordinato di declassificare i documenti dell’Fbi sugli attacchi dell’11 Settembre, disinnescando la rabbia delle migliaia di familiari delle vittime che l’avevano ammonito a non presentarsi alle cerimonie di commemorazione se non avesse prima rimosso il segreto dal materiale relativo alla possibile complicità dell’Arabia Saudita con i 19 dirottatori aerei, 15 dei quali erano – appunto -sauditi.
Da una parte, una promessa di trasparenza fatta in campagna elettorale e ora mantenuta; dall’altra, un desiderio di giustizia, ma anche di trovare un responsabile ‘solvente’, in grado di rimborsare il dolore causato. Il presidente invita a non dimenticare mai il duraturo dolore dei familiari e dei cari “dei 2.977 innocenti che furono uccisi nel peggior attacco terroristico all’America nella sua storia”: “Per loro non è solo una tragedia nazionale ed internazionale, ma una devastazione personale”, sottolinea, ricordando “la sedia vuota a casa” e “il buco nei loro cuori”, senza un marito, una moglie, un padre, una madre, un figlio o un amico.
Dall’inizio di settembre, le tv Usa – e quelle di tutto il Mondo – sono state invase di speciali, documentari, interviste con soccorritori, sopravvissuti, gli orfani dell’11 Settembre. Quasi tutti i prodotti televisivi sono però concentrati su quel giorno: le immagini di distruzione, caos e shock; gli imperativi ‘remember’ e ‘never forget’, persino inutili per quanti hanno memoria diretta di quel giorno. Ma vent’anni vogliono ormai dire un’intera generazione cresciuta senza avere vissuto quel giorno, come parte dei 13 marines uccisi nell’attentato all’aeroporto di Kabul il 26 agosto, gli ultimi caduti Usa della guerra più lunga.
C’è pure chi, come Spike Lee nel suo ‘Nyc Epicenters: 9/11-2021½”, ricostruisce che cosa è successo dopo e com’è cambiata l’America da allora. Sull’ANSA, Claudio Salvalaggio sintetizza: “Il pantano militare dall’Afghanistan e la guerra in Iraq con le torture del carcere d’Abu Ghraib; la crescita del razzismo e dell’islamofobia di cui fece le spese anche Obama (accostato a Osama); la diffusione di teorie cospirative e negazioniste (a partire dal crollo delle Torri Gemelle); la perdita di fiducia nelle istituzioni che demagoghi alla Donald Trump hanno usato per minare la democrazia e realizzare paradossalmente l’obiettivo di al Qaida di dividere e indebolire l’America. Con l’assalto al Congresso come simbolo di un Paese insanabilmente polarizzato, lontano da quello in cui dopo l’attacco un coro di parlamentari
repubblicani e democratici cantarono insieme sulla scalinata del Campidoglio ‘God Bless America’”. E fecero loro eco, ovunque nel Mondo, cori spontanei di persone riunitesi, portando un fiore o un cero, a pregare e a esprimere la loro solidarietà.
La ‘saudi connection’, all’ombra dell’amicizia tra Riad e Washington
Nel tempo, la ‘saudi connection’ è stata oggetto di indagini, ma pure di silenzi, nell’ombra delle connivenze tra Riad e Washington esasperate da Trump. L’anniversario fa però sciogliere qualche lingua. Danny Gonzales, un ex agente dell’Fbi, racconta al New York Post che due dei dirottatori sauditi avevano molto probabilmente un network di supporto basato negli Usa.
Gonzales ha partecipato all’ ‘Operation Encore’, l’indagine segreta sui dirottatori sauditi che vivevano a San Diego, e ora lavora come investigatore per conto dei familiari delle vittime. L’ex agente sostiene che due dirottatori, Nawaf al-Hazmi e Khalid al-Mihdhar, vennero aiutati da personaggi sauditi con ruoli ufficiali, compreso tale Omar al-Bayoumi, che lavorava per il regime di Riad. Al-Bayoumi in passato ha ammesso di aver incontrato casualmente i due apprendisti kamikaze in un ristorante di Los Angeles e di averli incoraggiati a trasferirsi a San Diego, aiutandoli a trovare un appartamento e ad aprire conti bancari.
I due frequentarono anche una scuola di volo nelle vicinanze. Ken Williams, altro ex agente dell’Fbi, scrisse un memo rimasto lettera morta prima dell’11 Settembre, ammonendo che potenziali terroristi stavano prendendo lezioni di volo in Arizona.
Il ritorno della Grande Paura
Gli Stati Uniti si sono avvicinati al XX anniversario dell’11 Settembre riscoprendo la paura di un nuovo attacco: nelle città più a rischio, soprattutto New York, è scattato lo stato d’allerta rafforzata. Al-Qaida, o quel che ne resta, ma anche suoi succedanei e cani sciolti o lupi solitari, tornano a incutere paura.
Si paventa un colpo di coda di al-Qaida nella ricorrenza tonda: una zampata per mostrare che il gruppo non è stato debellato. Sarebbe un duro colpo per l’Amministrazione Biden, che, ritirandosi dall’Afghanistan, ha sostenuto che la missione, almeno quella di debellare al Qaida, la rete che aveva organizzato l’attacco all’America, era stata compiuta.
Il suo fondatore e coordinatore è stato ucciso in Pakistan da un commando di Navy Seals, forze speciali Usa, nel 2011 sotto Obama, e il numero due Qassim al Raymi è stato ‘neutralizzato’ da un drone nel 2020 in Yemen sotto Trump, Ma al-Qaida resta attiva, fa sapere l’intelligence statunitense: il network terrorista nella penisola arabica ha recentemente diffuso la prima copia in inglese del suo magazine ‘Inspire’, dopo oltre quattro anni di silenzio editoriale; ed ora, dopo il ritorno al potere dei talebani, potrebbe riorganizzarsi in Afghanistan.
Ma non è solo lo spettro di al-Qaida a fare paura. C’è pure lo Stato Islamico e le sue filiali, come l’Isis-K afghano, che ha rivendicato il cruento attacco a Kabul il 26 agosto – circa 200 le vittime complessive -. L’eliminazione nel 2019 dell’autoproclamato califfo Abu Bakr al-Baghdadi in Siria non attenua le preoccupazioni, perché l’Isis s’è molto ramificato geograficamente dall’Afghanistan all’Africa, esercitando influenza e portando morte anche in Estremo Oriente e in Oceania.
Per questi motivi, il segretario Usa alla sicurezza interna Alejandro Mayorkas ha lanciato una allerta per la “rafforzata minaccia” negli Usa di attacchi terroristici: una minaccia che include il terrorismo domestico, ma che è soprattutto legata a “individui ispirati o motivati da terroristi stranieri e/o da altre influenze straniere maligne”, attori che “stanno sfruttando sempre più i forum online per diffondere narrative estremiste e provocare azioni violente”.
Più che di un attentato in grande stile, si teme l’iniziativa di qualche singola persona radicalizzatasi negli Usa. O di un infiltrato. Come accaduto nel dicembre 2019 nella base
navale Usa di Pensacola in Florida, dove Mohammed Saeed Alshamrani, un ufficiale dell’aviazione saudita in addestramento, uccise tre persone prima di essere a sua volta eliminato. A distanza di mesi l’Fbi scoprì che Alshamrani era da anni in regolare contatto con al-Qaida: anche la notte prima del suo attacco, aveva postato messaggi ostili contro gli Usa.
Dopo il ritiro dall’Afghanistan, Biden s’è impegnato a continuare la lotta al terrorismo senza più ‘boots on the ground’, ma con capacità ‘over-the-horizon’, ossia con tutti i mezzi che offre oggi la tecnologia, dai droni ai satelliti. Ma dovrà evitare fallimenti nel monitorare e intercettare cellule che vivano e agiscano nell’Unione.