Il principio di Murphy applicato all’ennesima (Super-)Potenza: tutto quello che poteva andare storto nell’evacuazione dell’Afghanistan è andato storto. Vent’anni di occupazione militare non sono bastati a vincere la guerra, ma non sono neppure serviti a preparare una ordinata ritirata: lo certifica – ma i fatti erano già sotto gli occhi di tutti – il New York Times, mettendo insieme in gran numero documenti riservati ma non classificati. E’ l’ennesima scaramuccia nel conflitto velenoso tra Difesa e intelligence su chi porti li maggiori responsabilità della Beresina afghana: sull’aeroporto di Kabul venivano al pettine tutte le inefficienze e le incongruenze dell’operazione ‘tutti a casa’.
Parlando alla Nazione il 31 agosto, a evacuazione bene o male conclusa, lasciando però indietro almeno un centinaio di cittadini americani e migliaia di afghani in diritto d’essere sfollati, Joe Biden ha detto che l’intera operazione, “uno straordinario successo”, è stata condotta nel modo migliore possibile, esaltando la dedizione e l’eroismo dei militari coinvolti – 13 di essi sono rimasti uccisi nell’attentato dell’Isis-K che, il 26 agosto, ha complessivamente fatto circa 180 vittime -.
In un reportage parallelo a quella sulla disastrosa evacuazione, il New York Times narra pure come la protezione delle donne afghane sia venuta meno nel giro di una notte, con l’ingresso dei talebani a Kabul: le case rifugio furono chiuse e il personale ricollocò le ospiti a casa loro, dove i parenti, genitori, fratelli o mariti, pro – talebani o rilasciati dalle prigioni dove erano stati rinchiusi per averle maltrattate, minacciavano di ucciderle.
In qualche misura, l’epilogo del conflitto in Afghanistan è stato analogo all’inizio, stando al libro ‘The Afghanistan Papers’ del giornalista investigativo del Washington Post Craig Whitlock, pubblicato negli Usa a fine agosto (uscirà in Italia a fine settembre, col titolo ‘Dossier Afghanistan. La storia segreta della guerra’. A credere a Whitlock, gli esordi non furono meno approssimativi della fine: il presidente George W. Bush non conosceva il nome del suo comandante in Afghanistan e non trovava il tempo per incontrarlo; il capo del Pentagono Donald Rumsfeld non aveva, per sua stessa ammissione, “alcuna visione” di chi fossero “i cattivi”, forse perché si ricordava di essere stato lui, una quindicina di anni prima, ad armarli e incoraggiarli a puntare su Kabul, nello spirito anti-Urss della Guerra Fredda.
Fra le disfunzioni dell’evacuazione, il New York Times riferisce di voli non autorizzati atterrati sull’aeroporto di Kabul e ripartiti con liste di passeggeri incomplete o non adeguatamente controllate, di centinaia di minori imbarcati senza i genitori, di migliaia di afghani stipati in hangar e tendopoli in precarie condizioni igienico-sanitarie in basi come Al Udeid, sede della 379th Air Expeditionary Wing, e Camp As Sayliyah, gestito dall’Esercito, vicino a Doha, in Qatar.
Ci furono fino a 15 mila persone accalcate: succedeva di tutto. A Camp As Sayliyah, uomini soli, spesso militari dell’esercito afghano, erano “fuori controllo”: furono loro confiscate armi che avevano inopinatamente portato con sé sugli aerei. L’affollamento e l’incertezza sul futuro facevano salire la tensione alle stelle: c’erano molte donne incinte, che avevano bisogno d’assistenza medica; l’igiene approssimativa favorì epidemie gastro-intestinali. Separati dagli adulti, 229 minori senza famiglia si ritrovarono esposti al bullismo dei più grandi fra di loro. A nessun rifugiato venne fatto un test anti-coronavirus.
Inquietanti pure le notizie sulle condizioni di sicurezza dell’operazione, in funzione anti-terrorismo: controlli frettolosi sull’identità e il background delle persone sfollate, oppure passaggi ai checkpoint dei talebani con badge elettronici inviati dagli americani agli afghani che dovevano essere evacuati, ma ampiamente condivisi.
Constata il NYT: “Qualunque fossero i piani preparati per una ordinata evacuazione, tutto andò a monte quando Kabul cadde da un giorno all’altro”, malgrado l’affannoso prodigarsi di diplomatici, funzionari, militari, medici e sanitari.
Un quadro addirittura grottesco, in un contesto drammatico, che stinge sull’immagine dell’Amministrazione Biden: non a caso, l’apprezzamento per l’operato del presidente è bruscamente sceso al suo livello più basso, per la prima volta sotto il 50% – il 44% lo approva, il 51% lo disapprova -, nonostante che due americani su tre si pronuncino a favore del ritiro. Ma è il modo sotto accusa.
Il libro di Whitlock, in fondo, gioca a favore di Biden, perché mostra come l’Afghanistan sia stato terreno minato per tutti i presidenti che vi si sono misurati: Bush jr, Barack Obama, che voleva venirne via e non lo fece, e Donald Trump, che negoziò la resa poi trasformatasi in rotta, senza coinvolgere il regime di Kabul e neppure gli alleati.
Whitlock, tre volte finalista ai Pulitzer, racconta una storia sconcertante per i paralleli con la guerra del Vietnam: gli ‘Afghanistan Paper’ sono stati subito paragonati ai Pentagon Papers che WP e NYT ottennero dalla talpa Daniel Ellsberg e che servirono a sbugiardare la versione rosea del Pentagono sull’andamento del conflitto nelle risaie dell’Indocina.
Vengono a galla le bugie utilizzate per giustificare un conflitto senza fine. Dal 2001 oltre 775 mila militari Usa sono stati impiegati in Afghanistan, molti ripetutamente. Di questi 2.300 sono morti e oltre 20 mila sono rimasti feriti. Il racconto di ‘Dossier Afghanistan’ si basa su documenti frutto d’un progetto federale per capire le cause del fallimento della più lunga guerra mai combattuta dagli Stati Uniti: “La gente parlava francamente perché pensava che le dichiarazioni non sarebbero mai diventate pubbliche”, spiega Whitlock. Ci ha messo tre anni per avere il materiale usando il Freedom of Information Act.
A differenza del Vietnam e dell’Iraq, l’invasione americana dell’Afghanistan dopo l’11 settembre 2001 ebbe inizialmente un sostegno quasi unanime da parte dell’opinione pubblica. Gli obiettivi parevano chiari: sconfiggere al-Qaida e prevenire il ripetersi di attacchi terroristici. Tuttavia, dopo la rimozione dei talebani dal potere e la distruzione delle basi di al-Qaida, la missione assunse un’altra piega, impantanando i militari americani ed alleati in un conflitto di guerriglia impossibile da vincere nell’illusoria speranza di porre in Afghanistan le basi di una democrazia efficiente d’impronta occidentale. Nessun presidente volle ammettere il fallimento.