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Afghanistan: Kabul anno zero, Occidente ritorno all’11 Settembre

Scritto per La Voce e il Tempo uscita lo 02/09/2021 in data 05/09/2021 e, in versione diversa, per il Corriere di Saluzzo dello 02/09/2021 e per MediaDuemila dello 03/09/2021 https://www.media2000.it/afghanistan-ventanni-dopo-tutto-e-di-nuovo-come-prima/

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“Era ora di finire questa guerra… E’ il momento di guardare al futuro… Andarsene dall’Afghanistan era la decisione giusta, la più saggia per l’America… C’è un mondo nuovo: la nostra strategia deve cambiare, dobbiamo difenderci da nuove minacce, affrontare le sfide del secolo e la competizione con Cina e Russia, continuando a combattere il terrorismo… Mi assumo la responsabilità di quanto fatto: non volevo continuare questa guerra per sempre”.

Concluse il 31 agosto le operazioni di evacuazione da Kabul, il presidente Usa Joe Biden ha difeso, in un discorso all’Unione, il suo operato, mentre i talebani esaltavano la riconquistata indipendenza del loro Paese. E’ stato il discorso di Biden più efficace, più convinto e più determinato, fra i tanti delle ultime tre caotiche settimane.

C’è pure un messaggio ai terroristi dell’Isis-K, branca afghana del Califfato: “Non dimenticheremo, non perdoneremo, vi braccheremo fino agli inferi e pagherete il fio”.

La buona notizia è che la più lunga guerra mai combattuta dagli Stati Uniti è finita: vent’anni meno un mese, centinaia di migliaia di afghani uccisi – insorti, ma pure molti civili, donne, bambini -, oltre tre mila americani e loro alleati caduti – più delle vittime dell’11 Settembre -, almeno 2.300 miliardi di dollari spesi (un migliaio solo in spese militari). Per un’intera generazione di americani, il primo settembre 2021 è stato il primo giorno di pace, senza una guerra in corso.

La cattiva notizia è che questo capitolo della storia militare Usa sarà probabilmente ricordato come “un colossale fallimento”, fatto di “promesse non mantenute” e chiuso in modo tragico, una rotta, non una ritirata: lo scrive l’Ap, la più grande agenzia di notizie al mondo, non un sito ‘trumpiano’ o ‘talebano’.

Subissato di critiche in patria, non per il fatto di venire via dall’Afghanistan, ma per come l’uscita è stata gestita – complice il crollo del castello di carte del regime e dell’esercito afghani -, Biden esalta i risultati del ponte aereo: oltre 100 mila afghani e circa 20 mila stranieri evacuati dai militari statunitensi e degli altri Paesi coinvolti, fra cui l’Italia; ricorda gli impegni presi dai talebani – “Abbiamo i mezzi per farli rispettare” –; ed evoca le responsabilità del suo predecessore.

Donald Trump, a fine febbraio 2020, firmò la resa ai talebani, senza coinvolgere nella decisione né il governo di Kabul né gli alleati della Nato: “Di fronte all’avanzata dei talebani avevo due scelte, o seguire gli accordi di Trump o inviare altre migliaia di soldati in una escalation della guerra”.

Missione compiuta? A metà, forse
Biden afferma: “Mettere fine alla missione di evacuazione è stata raccomandazione unanime di tutti i comandanti dello Stato Maggiore e di quelli sul terreno”. Nelle ultime 72 ore, l’aeroporto di Kabul era sotto costante minaccia di attacchi terroristici – kamikaze, autobombe, lancio di razzi –: le azioni dell’Isis-K e le reazioni statunitensi hanno fatto centinaia di morti (fra cui 13 marines, ultimi caduti Usa di questa guerra). Due gli obiettivi: “Tutelare le vite dei nostri soldati e garantire la prospettiva delle partenze dei civili che vogliano lasciare l’Afghanistan nelle prossime settimane e mesi”.

Sarebbero almeno 100 mila gli afghani ‘lasciati indietro’ dalla caporetto occidentale, con un numero di americani indeterminato, oltre un centinaio. Per loro, il presidente conta sulla risoluzione varata dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu, che chiede ai talebani di rispettare la libertà di movimento, oltre che i diritti umani, specie delle donne. Il testo è passato con l’astensione di Russia e Cina.

C’è chi vede il bicchiere mezzo pieno: sul Washington Post. Michael Leiter, già direttore dal 2007 al 2011 del centro nazionale Usa anti-terrorismo, sostiene, citando dati a suo dire “inconfutabili”, che il pericolo terroristico è stato ridimensionato dalla ‘lunga guerra’. Sarà vero. Ma non lascia tranquilli la ‘staffetta’ tra il generale Christopher Donahue, comandante la 82a Airborne Division, l’ultimo militare Usa a salire sull’ultimo C-17 al decollo da Kabul, e Amin-ul-Haq, ex responsabile della sicurezza di Osama bin Laden nel suo rifugio di Tora Bora, da cui fuggì in Pakistan in moto, rientrato quasi contemporaneamente in Afghanistan.

L’arrivo dell’esponente di spicco di Al Qaida nella sua provincia d’origine di Nangarhar, al confine con il Pakistan, viene mostrato in un video sul web, ripreso anche dalla Bbc. Amin-ul-Haq, a lungo tra i responsabili della fornitura di armi al gruppo jihadista, vi compare a bordo di un Suv, accolto con entusiasmo da abitanti del posto, che gli baciano la mano e si fanno fotografare con lui

Quanto alla presenza dell’Isis in Afghanistan, la sequela di tragici eventi dell’ultima settimana ne è tragica conferma. Sul terreno ci sarebbero 2000 “irriducibili” miliziani del Califfato: una minaccia per l’Occidente, ma anche una spina nel fianco per i talebani, cui i terroristi contestano la trattativa con gli Usa.

Le polemiche e le critiche
Nel momento in cui, martedì, l’ultimo stormo di cargo Usa ha superato le vette dell’Hindu Kush, Biden poteva dire di avere mantenuto la promessa di porre termine alla presenza in Afghanistan, una promessa tradita dai suoi predecessori. Ma la guerra non è stata vinta e le circostanze della fuga americana e occidentale stingono sul mandato del presidente, criticato da più parti.

Per i media Usa, è l’ora degli esami di coscienza: sul Washington Post, Ishaan Tharoor osserva che la crisi afghana “mette in rilievo il mutare del ruolo – e pure del peso, ndr – degli Usa nel Mondo”; sul New York Times, Frank Bruni denuncia la “perdurante arroganza” della politica internazionale degli Stati Uniti. La stampa liberal è dura con l’Amministrazione Biden: non si contesta la decisione di ritirarsi dall’Afghanistan, ma come essa è stata realizzata – una rotta, non un’uscita di scena sicura per sé e per i propri alleati e ordinata -.

“Gli Usa – scrive Fawaz A. Gerges sul WP – devono resistere alla tentazione di sparare prima e fare domande dopo … Questa è stata la ricetta per il disastro in Vietnam, Iraq, Afghanistan e non solo … I nostri leader devono liberarsi di un impulso crociato e di un complesso di superiorità morale negli affari internazionali che ha fatto più male che bene alla Nazione” e che “ha alimentato il terrorismo che voleva distruggere”. La nuova priorità è “l’obbligo morale” nei confronti di rifugiati afghani, che l’Europa, in realtà, al di là delle parole, fatica a sentire e a tradurre in pratica: ancora una volta, è più facile alzare muri – lo fanno Turchia e Grecia -, pur avendo contribuito a distruggere i ponti dietro alla gente in fuga.

In un editoriale, il Washington Post denuncia “un disastro morale, attribuibile non al personale militare e diplomatico a Kabul, che è stato coraggioso e professionale di fronte a pericoli mortali, ma agli errori, strategici e tattici, di Biden e della sua Amministrazione”: la frettolosa e caotica ritirata da Kabul ha lasciato indietro “migliaia di persone, compresi ex interpreti e le loro famiglie e altri afghani ritenuti come ‘vulnerabili’, come personale delle Ong e attivisti dei diritti delle donne”.

Fra le persone abbandonate, elenca il quotidiano, “molti giornalisti locali che lavoravano per media sostenuti dagli Usa” e centinaia di docenti e studenti della American University of Afghanistan. C’è scetticismo sulle promesse dei talebani di lasciar uscire tutte le persone che lo desiderano: il WP  chiede al presidente, se davvero possiede le “leve significative” evocate dal segretario di Stato Antony Blinken, di “usarle inesorabilmente finché ogni afghano con una legittima rivendicazione non abbia trovato rifugio”.

 Le amnesie della politica
Virulenti gli attacchi dei repubblicani, che ipotizzano iniziativa di impeachment contro il presidente o, in alternativa, contro Blinken, ignorando le responsabilità di Trump. Proprio il ‘bugiardo-in-capo’ guida la carica anti-Biden: “Deve dimettersi”, dice. E chiosa: “Non dovrebbe essere un problema, visto che non è mai stato legittimamente eletto” – la sua fissa delle elezioni truccate -. Un deputato, Mike Garcia, chiede le dimissioni del presidente. Nikki Haley, rappresentante degli Usa di Trump all’Onu e potenziale candidata repubblicana a Usa 2024, è ironica: “Biden dovrebbe dimettersi, ma Kamala Harris – la sua vice, che diventerebbe presidente, ndr – è dieci volte peggio” (insomma, dalla padella nella brace).

Ronna McDaniel, presidente del partito, definisce una “vergogna” avere lasciato oltre 100 cittadini Usa alla mercé dei talebani: il presidente ha “creato un disastro, abbandonando i nostri interessi … Questo prova che Biden è incapace di servire come comandante-in-capo, gli Stati Uniti e il mondo sono meno sicuri a causa sua”. Il leader dei repubblicani alla Camera Kevin McCarthy le va dietro. Il senatore della Florida Rick Scott dice: “Non possiamo condurre guerre senza fine, ma l’ampiezza e le conseguenze del fallimento di Biden sono stupefacenti”.

I repubblicani cavalcano lo scempio del ritiro dell’Afghanistan in funzione delle elezioni di midterm del novembre 2022 – mancano più di 14 mesi -: se l’opposizione riuscisse a riprendere il controllo di uno o di entrambi i rami del Congresso, le ipotesi di impeachment, del presidente, o di Blinken, o del segretario alla Difesa Lloyd Austin, avrebbero maggiore concretezza.

Secondo The Hill, il giornale degli insider della politica statunitense, si soppesano diverse opzioni: dalla messa in stato di accusa del presidente, cioè l’impeachment, alla rimozione ricorrendo al 25o emendamento della Costituzione, che stabilisce che il vice-presidente può assumere i poteri in caso di incapacità del presidente in carica – se n’era parlato per Trump, nella fase finale del suo mandato, quando il magnate farneticava di elezioni truccate e sobillava i suoi sostenitori contro il Congresso e le istituzioni -.

Il presidente è criticato anche dalle organizzazioni umanitarie, come Amnesty International, che chiede conto dei dieci civili, fra cui dei bambini, uccisi domenica intercettando dei terroristi che volevano attaccare l’aeroporto, e da quelle animaliste – decine di cani militari sarebbero stati lasciati a Kabul: circostanza seccamente smentita dal Pentagono, “non è vero” -.

 La minaccia terroristica
Al di là delle chiacchiere strumentali dei repubblicani, probabilmente destinate a rimanere tali, resta la tragica gravità della situazione in Afghanistan e delle prospettive che ne discendono, alla vigilia del 20° anniversario dell’11 Settembre 2001. L’ex consigliere per la Sicurezza nazionale di Trump, il generale H.R.McMaster, che se ne andò in malo modo dalla Casa Bianca, non ha dubbi: fronte minacce agli Usa, l’attentato di Kabul del 25 agosto “è solo l’inizio” ed è ciò che “succede quando ti arrendi a un’organizzazione terroristica”.

McMaster, che fu in carica fra il 20178 e il 2018, critica Biden per le modalità del ritiro, ma critica pure Trump che “si fece giocare dai talebani” con l’accordo di Doha del 2020 – quella trattativa fu una delle ragioni della rottura tra il generale e il presidente, che in un mandato cambiò ben quattro consiglieri per la sicurezza nazionale -.

McMaster ha idee diverse da altri esperti d’intelligence: non vede sostanziali differenze fra terroristi dell’Isis-K e talebani: “E’ tempo di smettere d’illudersi che questi gruppi siano separati… Bisogna, invece, riconoscere che sono interconnessi … Stiamo assistendo alla creazione di uno Stato terrorista e jihadista in Afghanistan e tutti noi dovremo affrontare come conseguenza un rischio molto maggiore”.

Il Grande Gioco ritorna alla casella di partenza
“Nulla sarà più come prima”: il mantra che diffonde un alone di speranza intorno ai grandi drammi, l’11 Settembre, la crisi economica, la pandemia, trova l’ennesima clamorosa smentita poco prima del ventesimo anniversario dell’attacco all’America condotto dai terroristi di al Qaida. Vent’anni dopo, l’Afghanistan si ritrova alla casella di partenza, con i talebani al potere – le novità sono Rayban e social, oltre ad armi più letali; le costanti sono la Sharia e le barbe – e decine di migliaia d’afgani impegnati a eliminare i loro profili dalle piattaforme digitali, per allontanare da sé i sospetti di collaborazione con gli invasori e cancellare le prove di condiscendenze occidentali.

“Non è Saigon 1975”, afferma il segretario di Stato Blinken, nonostante le immagini dall’aeroporto di Kabul evochino l’ultimo drammatico atto della presenza degli Usa in Vietnam. Non è lo stesso, perché, sostiene Blinken, gli obiettivi dell’intervento in Afghanistan sono stati raggiunti, mentre quelli della guerra contro i vietcong non lo erano stati. Sarà. Ma l’impressione è che i talebani siano oggi i vincitori, così come lo furono allora i vietcong.

Invadendo l’Afghanistan e rovesciando il regime degli ‘studenti islamici’, gli Stati Uniti volevano distruggere i santuari di al Qaida e mettersi al riparo da ulteriori minacce. Questo obiettivo può forse considerarsi raggiunto, fatto salvo l’allarme per potenziali contraccolpi terroristici di quanto sta avvenendo e per eventuali tentazioni di qualche esaltato di ‘celebrare’ l’imminente anniversario. Ma in fondo lo era già nel 2004, al più tardi il 2 maggio 2011, quando Osama bin Laden venne scovato ed ucciso ad Abbottabad, in Pakistan.

Il fatto è che quello non era l’unico obiettivo: c’era il calcolo di fare dell’Afghanistan un avamposto dell’Occidente, l’illusione di dargli una democrazia sostenibile. E, qui, il fallimento è stato totale. Noi ce ne andiamo, anzi scappiamo; e i talebani si riprendono il Paese, che è il loro, senza sparare un colpo: centinaia di migliaia vogliono sottrarsi alla sharia, milioni la considerano la loro legge.

Abbiamo scelto come interlocutori uomini inadeguati: passi Ahmid Karzai, il primo presidente, uomo della Cia dotato di buon carisma e d’una fisicità ieratica; ma Ashraf Ghali, il ‘fuggitivo in capo’, era uno che – per vincerle – doveva truccare elezioni pur già addomesticate.

Era sbagliato andare in Afghanistan nel 2001? Forse. Ma era praticamente impensabile non farlo, nel clima di allora. Abbiamo sbagliato a restarci vent’anni? Certo, lo sapevamo tutti: Barack Obama fu eletto due volte promettendo il ritiro; Trump fu eletto contestando a Obama di non averlo; Biden lo ha fatto, purtroppo male.

Era il momento sbagliato per venire via? Non ci sarebbe mai stato un momento giusto: i militari, e pure i diplomatici e i politici, erano consci che il governo di Kabul, corrotto e inetto, impopolare e pusillanime, sarebbe crollato come un castello di carte.

Cinicamente, adesso non resta che aspettare che anche i cinesi, i vincitori del momento, al tavolo della geo-politica, si ritrovino vittime della maledizione afghana. che ha travolto l’uno dopo l’altro il Regno Unito, fittizia potenza coloniale per un secolo, poi l’Unione Sovietica, potenza occupante per un decennio, e infine gli Stati Uniti e tutto l’Occidente, presenze militari per vent’anni, ma incapaci di costruire una parvenza di democrazia sostenibile. Come molti altri Paesi, l’Afghanistan è più insofferente delle presenze straniere che delle proprie ineguaglianze, iniquità, contraddizioni, divisioni.

Certo, Pechino affronta il Grande Gioco consapevole degli errori altrui: tanto per cominciare, zero presenza militare; solo ‘assistenza’ economica e commerciale e ‘consulenza’ diplomatica. La Cina ha già dimostrato in Africa e altrove che la corruzione e gli autoritarismi dei regimi con cui lavora non sono un suo problema; e non è mai stata condiscendente con il terrorismo -. ‘The Great Game’ è il nome dato alla partita giocata sull’Afghanistan e i territori adiacenti dagli Imperi russo e britannico tra il XIX e il XX Secolo ed è poi stato utilizzato sia dopo l’occupazione sovietica che dopo l’invasione occidentale.

Quando l’Urss invase l’Afghanistan a fine 1979, lo eleggemmo nostra frontiera della libertà e dell’indipendenza nazionale. Cacciati i sovietici e cantata vittoria lì e nella Guerra Fredda, tornammo a disinteressarcene, fino all’11 Settembre 2001 e nonostante i campanelli d’allarme – fragorosi e sanguinosi – nel 1998 di Nairobi e di Dar Es Salaam. Allora, vi scoprimmo i ‘santuari’ dei terroristi di al Qaida, protetti dai talebani, che costringevano le donne a vivere in un medioevo d’ignoranza e sottomissione.

Adesso che ce ne siamo andati, ci facciamo un mito e un cruccio dell’emancipazione femminile degli ultimi vent’anni. Ma foto degli Anni Ottanta mostrano maestrine in gonna nera e camicetta bianca che insegnano a classi di bambine nel Paese occupato dall’Urss e ‘liberato’ dai talebani, che allora chiamavamo mujaheddin, armati dagli Usa per cacciare i sovietici. E mai ci chiedemmo che fine abbiano fatto le maestrine ‘comuniste’ e le loro scolarette.

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gphttps://www.giampierogramaglia.eu
Giampiero Gramaglia, nato a Saluzzo (Cn) nel 1950, è un noto giornalista italiano. Svolge questa professione dal 1972, ha lavorato all'ANSA per ben trent'anni e attualmente continua a scrivere articoli per diverse testate giornalistiche. Puoi rimanere connesso con Giampiero Gramaglia su Twitter

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