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Afghanistan: Baradar, da ribelle a negoziatore a capo politico

Scritto per Il Fatto Quotidiano dello 04/09/21

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I diplomatici occidentali lo considerano da tempo “il talebano che negozia”: si comporta, dicevano di lui, “come un vecchio capo tribale Pashtun”, che cerca di costruire il consenso, non di imporre una decisione. Abdul Ghani Baradar, 53 anni circa – la data di nascita non è certa -, nove trascorsi in una prigione pakistana (dal 2010 al 2018), è generalmente indicato come il capo del governo che i talebani s’apprestano ad annunciare – oggi potrebbe essere il giorno buono, ma a Kabul tutto è fluido -.

Fra i fondatori del movimento, figura di spicco già nella seconda metà degli Anni 90, Baradar è gerarchicamente subordinato alla guida suprema Hibatullah Akhundzada, la cui autorità è essenzialmente religiosa, ma è il leader politico. Si racconta che fu il Mullah Omar, capo un po’ mitico dei talebani che presero il potere nel 1995, a chiamarlo Baradar, che significa fratello: Mullah Baradar, mullah fratello, a segnalare il legame che li univa.

Dopo che il regime dei talebani venne rovesciato dall’invasione occidentale, nel 2001, Baradar assunse la guida della Shura – il consiglio dei capi – di Quetta, in Pakistan. Nonostante conducesse l’opposizione all’occupazione dell’Afghanistan, Baradar avrebbe provato più volte a intavolare trattative con il governo afghano del presidente Hamid Karzai e con gli Stati Uniti, nel 2004 e ancora nel 2009, sottraendosi all’influenza e al controllo dell’intelligence pakistana.

Il che gli valse una nomea di moderato e di negoziatore, ma gli costò l’ostilità pachistana. Infatti, nel 2010 fu arrestato, in circostanze mai del tutto chiarite – forse una soffiata deli americani impossibile da ignorare -: la sua vera colpa, avere tenuto il Pakistan fuori dagli approcci di pace tentati. Uscì di prigione nel 2018, su richiesta degli Stati Uniti: l’immarcescibile inviato speciale Usa per l’Afghanistan Zalmay Khalilzad chiese al governo di Islamabad di rilasciarlo, perché poteva dare una mano nelle trattative che stavano per aprirsi.

Neppure tre mesi dopo, a gennaio del 2019, a Doha, in Qatar, Baradar diveniva il ‘numero due’ della gerarchia talebana e il capo dell’ufficio politico: è stato lui a gestire per i talebani il negoziato con gli Stati Uniti di Donald Trump. Poco più di un anno dopo, a febbraio del 2020, la firma dell’intesa che apparve subito una resa quasi incondizionata: gli americani e gli occidentali vanno via, i talebani tornano al potere; il tutto concordato senza il coinvolgimento del governo di Kabul e degli alleati di Washington.

Il 17 agosto, Baradar è tornato in Afghanistan per la prima volta dal 2001: quasi vent’anni d’esilio, da ribelle, da detenuto, da negoziatore. Prima a Kandahar, la roccaforte dei talebani, poi a Kabul, dove il 23 agosto, quando bisognava ancora da negoziare qualcosa, gli Stati Uniti di Joe Biden hanno mandato il direttore della Cia William J. Burns a incontrarlo. Risultato: i talebani non hanno interferito, anzi hanno collaborato, con l’ultima fase concitata dell’evacuazione occidentale, senza però riuscire ad evitare l’attacco terroristico dell’Isis-K il 26 agosto.

Il governo che, sotto la guida di Baradar, dovrà guidare il Paese sarà “senza alcun dubbio islamico, qualunque sia la combinazione”, dice il portavoce dei talebani Zabihullah Mujahid; e sarà forse meno inclusivo di quanto si sperava. Candidati a ruoli chiave sono gli altri due vice di Akhundzada: Mohammad Yaqoob, figlio maggiore del Mullah Omar, e Sirajuddin Haqqani, di un clan potente nell’area al confine con il Pakistan. Possibili le conferme di Ibrahim Sadr all’Interno, del mullah Abdul Qayyum Zakir alla Difesa e di Gul Agha, amico d’infanzia del Mullah Omar, alle Finanze.

gp
gphttps://giampierogramaglia.eu
Giampiero Gramaglia, nato a Saluzzo (Cn) nel 1950, è un noto giornalista italiano. Svolge questa professione dal 1972, ha lavorato all'ANSA per ben trent'anni e attualmente continua a scrivere articoli per diverse testate giornalistiche. Puoi rimanere connesso con Giampiero Gramaglia su Twitter

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