HomeMondoAfghanistan: Cina prova a giocare Grande Gioco, perso da Gbr, Urss, Usa

Afghanistan: Cina prova a giocare Grande Gioco, perso da Gbr, Urss, Usa

Scritti il 16/08/2021 per The Post internazionale https://www.tpi.it/esteri/afghanistan-arriva-cina-cosa-succede-adesso-analisi-giampiero-gramaglia-20210816817410/ e per il blog de Il Fatto quotidiano https://www.ilfattoquotidiano.it/2021/08/16/afghanistan-si-torna-alla-casella-di-partenza/6293070/

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Cinicamente, adesso non resta che aspettare che anche i cinesi, i vincitori del momento, al tavolo della geo-politica, si ritrovino vittime della maledizione afghana. che ha travolto l’uno dopo l’altro il Regno Unito, fittizia potenza coloniale per un secolo, poi l’Unione Sovietica, potenza occupante per un decennio, e infine gli Stati Uniti e tutto l’Occidente, presenze militari per vent’anni, ma incapaci di costruire una parvenza di democrazia sostenibile. Come molti altri Paesi, l’Afghanistan è più insofferente delle presenze straniere che delle proprie ineguaglianze, iniquità, contraddizioni, divisioni.

Certo, Pechino affronta il Grande Gioco consapevole degli errori altrui: tanto per cominciare, zero presenza militare; solo ‘assistenza’ economica e commerciale e ‘consulenza’ diplomatica. La Cina poi ha già dimostrato in Africa e altrove che la corruzione e gli autoritarismi dei regimi con cui collabora non sono un suo problema. ‘The Great Game’ è il nome dato alla partita giocata sull’Afghanistan e i territori adiacenti dagli Imperi russo e britannico tra il XIX e il XX Secolo ed è poi stato utilizzato sia dopo l’occupazione sovietica che dopo l’invasione occidentale.

Fino ad ora ai margini del Grande Gioco, la Cina prova a vincere là dove tutti gli altri hanno perso. L’Occidente, che ci ha appena perso le penne, non potrà fare altro che stare a guardare, a meno che l’Afghanistan non ridiventi un’incubatrice di terrorismo a casa nostra – ma Pechino non è mai condiscendente con il terrorismo -; l’Iran e il Pakistan vorranno soprattutto evitare contraccolpi dell’onda afghana. Ci sono le condizioni perché almeno il prossimo decennio sia nel segno cinese: vedremo se l’impatto sulla realtà afghana sarà labile e controverso come quello occidentale o più duraturo e meglio accetto.

L’Afghanistan, tornato ora Emirato dopo essere stato ufficialmente fino a ieri Repubblica islamica, è un Paese senza sbocco sul mare, grande due volte l’Italia e con meno di 40 milioni d’abitanti. Ai tempi delle colonie, quando mettevano le mani su tutto ciò che faceva Impero, gli inglesi cercarono di infilarlo nel loro carniere, a partire dal 1823, lasciandoci migliaia di uomini e infine le pive.

Poi, dopo che guerre di indipendenza in serie culminarono nel 1919 nella creazione di un Regno, per mezzo secolo o giù di lì, non abbiamo più badato all’Afghanistan: bastava che ne arrivasse l’oppio che noi consumiamo (e di quel che succedeva alle donne e alla gente, che certo non stavano meglio di adesso che sono tornati i talebani, non importava niente a nessuno).

Quando l’Urss lo invase a Natale del 1979, noi però lo eleggemmo a nostra frontiera della libertà e dell’indipendenza nazionale. Ma, cacciati i sovietici e cantata vittoria lì e nella Guerra Fredda, tornammo a disinteressarcene, fino all’11 Settembre 2001 e nonostante i campanelli d’allarme – fragorosi e sanguinosi – nel 1998 di Nairobi e di Dar Es Salaam. Allora, vi scoprimmo i ‘santuari’ dei terroristi di al Qaida, protetti dai talebani, che costringevano le donne a vivere in un medioevo d’ignoranza e sottomissione.

Adesso che ce ne siamo andati, anzi ne siamo scappati, rivivendo a Kabul 2021 Saigon 1975, ci facciamo un mito dell’emancipazione femminile degli ultimi vent’anni. Ma foto degli Anni Ottanta mostrano maestrine in gonna e camicetta che insegnano a classi di bambine nel Paese occupato dall’Urss e ‘liberato’ dai talebani, che allora chiamavamo mujaheddin, armati da Donald Rumsfeld – pace all’anima sua – per cacciare i sovietici. E mai ci chiedemmo che fine abbiano fatto le maestrine e le loro scolarette.

Era sbagliato andare in Afghanistan nel 2001? Forse. Ma era praticamente impossibile non farlo, almeno per gli americani, in quel clima: quando George W. Bush annunciò l’inizio delle operazioni, dallo Studio Ovale, domenica 7 ottobre, a metà giornata, negli stadi dell’Unione dove si giocavano le partite del campionato di football, la gente, avvertita dagli altoparlanti, si alzò in piedi, cantò l’inno e scandì in coro ‘U-S-A, U-S-A’.

Abbiamo sbagliato a restarci vent’anni? Certo. Ma lo sapevamo, tutti: Barack Obama venne eletto e rieletto con un programma che prevedeva il ritiro dall’Afghanistan (e la chiusura di Guantanamo); Donald Trump venne eletto contestando a Obama di non essersi ritirato e negoziò con i talebani senza coinvolgere il governo perché voleva ‘portare i ragazzi a casa’ prima delle presidenziali 2020; Joe Biden lo ha fatto.

E’ stato fatto nel modo sbagliato, dando alla ritirata l’apparenza di una fuga? Si poteva fare meglio, provare a organizzare una transizione non traumatica. Era il momento sbagliato, per venire via? Non ci sarebbe stato un momento giusto: i militari, e pure i diplomatici e i politici, erano consci che il governo di Kabul, corrotto e inetto, impopolare e pusillanime, sarebbe crollato come un castello di carte.

Abbiamo scelto come interlocutori uomini sbagliati – ammesso che ce ne fossero di giusti -: passi Ahmid Karzai, il primo presidente, uomo della Cia dotato di buon carisma e d’una fisicità ieratica; ma Ashraf Ghali, il ‘fuggitivo in capo’, era uno che – per vincerle – doveva truccare elezioni già addomesticate. E, in Afghanistan, il mestiere di capo dello Stato, monarchia o repubblica che fosse, è sempre stato pericolosissimo, perché non molti sono quelli che ne sono usciti vivi e pochi quelli che ne sono usciti a fine mandato – Karzai è l’unica eccezione recente -.

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Afghanistan: vent’anni dopo, ritorno alla casella di partenza

“Non è Saigon 1975”, afferma il segretario di Stato Usa Antony Blinken, nonostante le immagini dall’aeroporto di Kabul evochino l’ultimo drammatico atto della presenza degli Usa in Vietnam. Non è lo stesso, perché, sostiene Blinken, gli obiettivi dell’intervento in Afghanistan sono stati raggiunti, mentre quelli della guerra contro i vietcong non lo erano stati.

Sarà. Ma l’impressione è che i talebani siano oggi i vincitori, così come lo furono allora i vietcong.

Invadendo l’Afghanistan e rovesciando il regime degli ‘studenti islamici’, gli Stati Uniti, colpiti dagli attacchi terroristici dell’11 Settembre 2001, volevano distruggere i santuari di al Qaida e mettersi al riparo da ulteriori minacce. Questo obiettivo può considerarsi raggiunto, fatto salvo l’allarme per potenziali contraccolpi terroristici di quanto sta avvenendo e per eventuali tentazioni di qualche esaltato di ‘celebrare’ l’imminente anniversario e il ‘sacrificio dei martiri’.

Ma in fondo lo era già nel 2004, al più tardi il 2 maggio 2011, quando Osama bin Laden venne scovato ed ucciso ad Abbottabad, in Pakistan – da anni non era più in Afghanistan -.

Il fatto è che quello non era l’unico obiettivo: c’era il calcolo di fare dell’Afghanistan un avamposto dell’Occidente, l’illusione di farne una democrazia sostenibile. E, qui, il fallimento è stato totale, nonostante la retorica dei militari italiani ‘brava gente’, costruttori di pace, non tecnici della guerra. Noi ce ne andiamo, anzi scappiamo; e i talebani si riprendono il Paese, che è il loro, quasi senza colpo ferire: decine di migliaia cercano di sottrarsi alla sharia, milioni la considerano la loro legge.

… di qui in avanti stralci del pezzo precedente

gp
gphttps://www.giampierogramaglia.eu
Giampiero Gramaglia, nato a Saluzzo (Cn) nel 1950, è un noto giornalista italiano. Svolge questa professione dal 1972, ha lavorato all'ANSA per ben trent'anni e attualmente continua a scrivere articoli per diverse testate giornalistiche. Puoi rimanere connesso con Giampiero Gramaglia su Twitter

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