Da oltre una settimana, Cuba è teatro delle manifestazioni di protesta più massicce mai registrate dagli Anni Novanta: esasperata dalla povertà, dal covid, dalle limitazioni delle libertà politiche e dalle violazioni dei diritti umani, la gente scende in piazza. E il regime risponde mobilitando decine di migliaia di persone, che lo sostengono e che denunciano l’impatto delle sanzioni Usa all’origine della crisi economica. Qui e là, bandiere cubane e slogan opposti: il presidente Miguel Díaz-Canel denuncia interferenze statunitensi; Joe Biden replica schierandosi “dalla parte del popolo”.
L’acme della tensione, finora, s’è registrato tra sabato, domenica e lunedì 10, 11 e 12 luglio, ma certo i fermenti dell’insoddisfazione e della contestazione non sono sopiti.
L’economia dell’isola è soffocata dalle sanzioni di Washington, levate da Barack Obama, che avviò la normalizzazione dei rapporti, dopo mezzo secolo di ostracismo, e reintrodotte da Donald Trump. E il covid ha drammaticamente aggravato la situazione, perché ha drasticamente ridotto il turismo, con la canna da zucchero la maggiore risorsa cubana.
Con l’elezione di Biden, L’Avana sperava che l’embargo fosse di nuovo rimosso. Ma ciò non è – ancora? – avvenuto; e non è immaginabile che avvenga adesso, al momento delle proteste, perché apparirebbe un gesto di sostegno al regime. Cina, Russia, Arabia saudita, Cuba: nel bene e nel male il presidente Usa affida alla politica estera la sua immagine di uomo forte con particolare attenzione al rispetto dei diritti umani.
L’opposizione repubblicana negli Stati Uniti pungola l’Amministrazione democratica sulla difesa della libertà: “Il problema con la sinistra che coccola il comunismo di Cuba è che non a cuore quello che a noi americani preme di più, la libertà. Lo Stato cubano è repressivo e non tollera coloro che si oppongono alla rivoluzione”, scrive The Daily Signal, newsletter quotidiana del think tank conservatore The Heritage Foundation.
Grande un terzo dell’Italia e con meno di 12 milioni di abitanti, Cuba ha il più alto tasso di contagio da covid pro capite di tutte le Americhe, secondo i dati del Guardian, che monitora l’andamento della pandemia. Il sistema sanitario – vanto del regime e contrapposto, in un film di Michael Moore, a quello statunitense – rischia il collasso: i media statali pubblicano immagini di pazienti ricoverati nei corridoi degli ospedali e i medici segnalano carenze di forniture vitali tra cui ossigeno, ventilatori e medicinali.
Si è commosso anche il Papa, che, domenica, all’Angelus, s’è detto “vicino al caro popolo cubano in questi momenti difficili, in particolare alle famiglie che più soffrono”: “Prego il Signore che lo aiuti a costruire in pace, dialogo e solidarietà una società sempre più giusta e fraterna”.
A Cuba, la chiesa conta: nel 1998, fu Giovanni Paolo II a sdoganare l’immagine di Fidel Castro, visitando l’isola. Sulla scia dello sprone di Francesco “al dialogo e alla pace”, i vescovi cattolici sono a loro volta intervenuti auspicando “soluzioni pacifiche” alla crisi attuale.
In una omelia domenica scorsa, Dionisio García, arcivescovo della diocesi di Santiago de Cuba, nell’est dell’isola, ha chiesto che “sia bandita la violenza, affinché le logiche differenze che ci sono fra le persone si risolvano con il dialogo, la misericordia e il perdono, e mai con gesti violenti”. Garcia ha anche pregato per “un futuro migliore e per il bene delle famiglie”, che “possa trasformarsi in un bene per la Nazione”.
La Conferenza dei vescovi cattolici di Cuba (Cocc) ha preso posizione, dicendo no alla violenza e invitando tutti “a non favorire la situazione di crisi, bensì ad esercitare, con buona volontà e serenità di spirito, l’ascolto, la comprensione e un atteggiamento di tolleranza, tenendo conto e rispettando l’altro, affinché insieme si cerchino le vie di una giusta e adeguata soluzione”. Un richiamo che vale sia per il regime che per i contestatori.
Il film degli eventi cubani: la fiammata della protesta
Quasi senza preavviso, almeno per i media occidentali, la fiammata della protesta si accende a Cuba il 10 luglio: L’Avana e Washington si rimpallano moniti e accuse, mentre decine migliaia di cubani danno vita alle manifestazioni di protesta contro il regime comunista più massicce da decenni, cui fanno da contrappunto manifestazioni pro-governative. A San Antonio de los Banos, circa 50 mila abitanti, a una trentina di chilometri dalla capitale, i contestatori, per lo più giovani, sfilano scandendo “Patria e vita!”, titolo di una canzone anti-regime, e gridando “Abbasso la dittatura!” e “Non abbiamo paura!”.
Dagli Anni Novanta non si vedeva a Cuba nulla di simile. Biden non pare colto di sorpresa: chiede al regime di ascoltare “il suo popolo e la chiara richiesta di libertà e di aiuto”. Ma Díaz-Canel accusa gli Stati Uniti di fomentare disordini nell’isola: ci sarebbero “mercenari” infiltrati a sobillare la folla e le proteste.
Biden non allenta le pressioni, perché – afferma – “il popolo cubano sta coraggiosamente chiedendo il riconoscimento di diritti fondamentali e universali … che vanno rispettati”. Una posizione che fa emergere preoccupazioni internazionali: messe in guardia contro tentazioni interventiste giungono da Mosca, ma anche da Città del Messico, mentre l’Onu si preoccupa per l’uso della forza eccessivo contro i manifestanti. L’aria non è quella di un intervento militare, anche se gli Usa hanno sempre mantenuto a Cuba la base di Guantanamo, all’estremità orientale, che fa ora da campo di prigionia dei ‘nemici combattenti’ catturati in Afghanistan e in Iraq.
Il malessere socio-economico cubano coincide con il picco della pandemia nell’isola, che domenica 11 registra 47 decessi e quasi 7.000 nuovi contagi, numeri record giudicati “allarmanti”. Il virus s’espande, con epicentro la provincia di Matanzas, nell’Ovest. Le cifre “aumentano ogni giorno”, constata Francisco Durán, direttore nazionale di Epidemiologia del Ministero della Salute.
Secondo quanto riferiscono i corrispondenti da Cuba di testate come la Bbc ed El Pais, cortei sfilano in diverse città cubane, fra cui la capitale, scandendo tutti lo slogan “Abbasso la dittatura”. Immagini postate sui social media mostrano agenti delle forze di sicurezza arrestare e picchiare manifestanti.
Negli ultimi mesi, i cubani hanno subito il crollo dell’economia in gran parte controllata dallo Stato: l’anno scorso, il Pil ha perso l’11%, il dato peggiore da almeno trent’anni, per effetto di virus e sanzioni. La gestione inadeguata della pandemia, in un Paese che s’è sempre vantato del suo sistema sanitario nazionale, oltre che di quello scolastico, s’è accompagnata a ulteriori restrizioni delle libertà civili.
I contestatori chiedono l’accelerazione del programma di vaccinazione. Dall’inizio della pandemia, i cubani devono affrontare lunghe file per fare scorta di cibo e generi di prima necessità e vivono una carenza di medicinali che innesca forti tensioni sociali. Con gli hashtag #SOSCuba o #SOSMatanzas, sui social si moltiplicano le richieste di aiuto, così come le richieste al governo perché faciliti l’invio di donazioni dall’estero. Il governo non accetta l’idea di “corridoi umanitari”, sostenendo che il concetto “si applica alle aree di conflitto e quindi non a Cuba”.
A fronte delle migliaia di contestatori, migliaia di sostenitori del governo scendono pure in strada, dopo che il presidente Díaz-Canel, parlando in tv, sprona il popolo a difendere la Rivoluzione, cioè l’insurrezione che nel 1959 rovesciò il regime dittatoriale di Fulgencio Batista e installò al potere, con l’aiuto dell’Urss, i barbudos comunisti. Per Díaz-Canel, le proteste sono provocazioni innescate da mercenari assoldati dagli Usa per destabilizzare il Paese.
“L’ordine di combattere è stato dato: ‘Nelle strade, rivoluzionari’”, proclama Díaz-Canel, 61 anni, presidente dal 2019, il primo leader cubano che non ebbe parte nella conquista del potere, condotta da figure come Fidel Castro – rimasto al potere fino al 2008 e cui poi successe il fratello Raul – e Che Guevara.
Il diplomatico Usa di più alto rango per l’America latina, Julie Chung, esprime, in un tweet “profonda preoccupazione” per “l’invito a combattere a Cuba”. La Casa Bianca asserisce di essere “dalla parte del popolo” e sollecita i governanti “ad ascoltare il popolo e a servire i suoi bisogni”, piuttosto che badare “ai propri interessi”.
Il film degli eventi: gli sviluppi più recenti
Dopo una settimana di relativa calma, con qualche concessione da parte governativa – levati i dazi su cibo e medicinali, aumentati gli stipendi agli statali -, la situazione è tornata a surriscaldarsi nell’ultimo week-end. Decine di migliaia di cubani – “oltre cento mila”, dice La Prensa, l’agenzia del regime – partecipano a L’Avana a una manifestazione organizzata dal governo per “riaffermare la Rivoluzione” e denunciare la persistenza dell’embargo e delle sanzioni imposte dagli Stati Uniti: sventolano bandiere cubane e del Movimiento 26 de Julio e si inneggia ai Castro e al presidente Díaz-Canel.
Rivolgendosi ai manifestanti riuniti a La Piragua, davanti al lungomare, non lontano dall’ambasciata degli Usa, il capo dello Stato denuncia “la campagna anti-cubana scatenata dall’estero” e “le falsità” di media che vogliono fare finire “l’esperienza rivoluzionaria cubana”: quello che il mondo vede e sa di Cuba “sono menzogne frutto della diffusione di immagini e notizie non corrispondenti al vero” per “mandare in frantumi la società cubana”. Díaz-Canel chiude con “Viva Cuba libera!”.
Dalla Casa Bianca, Biden non stempera i toni: “Il comunismo è fallito e Cuba è uno Stato fallito”, Díaz-Canel rilancia: “Gli Stati Uniti volevano distruggere Cuba, ma non ci sono riusciti, nonostante abbiano speso miliardi di dollari par farlo”. L’Amministrazione statunitense si sforza di ripristinare la rete internet nell’isola caraibica, forzando il blocco del regime che silenzia i social dal cui tamtam è partita la protesta.
Biden intende anche inviare a Cuba vaccini in quantità per contrastare la diffusione del covid, ma vuole che la distribuzione sia gestita da un’organizzazione internazionale che possa garantire l’accesso a tutti i cubani. Díaz-Canel ribatte: “Se Biden ha davvero a cuore il popolo cubano, elimini l’embargo che dura dal 1962 e cominci a revocare le ulteriori 243 misure restrittive poste da Trump, di cui più di cinquanta crudelmente durante la pandemia”.
Una richiesta questa avanzata a gran voce da molti altri Paesi, specie dalla maggior parte degli Stati dell’America latina. L’ora della distensione tra l’Avana e Washington non è ancora arrivata. E neppure l’ora della serenità e dei diritti per il popolo cubano.