L’ennesima crisi libanese fa le sue prime vittime, in una catena senza fine di violenze e conflitti che, dalla guerra civile tra il 1975 e il 1990 e i giorni nostri, ha segnato il Paese in modo indelebile. Ieri, nel Nord, a Tripoli, in una delle aree più povere del Libano, epicentro delle proteste antigovernative contro carovita e corruzione, ci sono stati scontri tra manifestanti ed esercito: almeno cinque i feriti, secondo fonti della Croce Rossa.
Sempre a Tripoli, all’uscita dalle moschee dopo la preghiera del venerdì, gruppi radicali sunniti e salafiti hanno indetto una “massiccia manifestazione” in piazza Nur, per sollecitare “le dimissioni del presidente e del primo ministro”, Michel Aoun e Hassan Diab.
La tensione in tutto il Paese è altissima, dopo che giovedì il capo dello Stato e il premier incaricato Saad Hariri non hanno trovato un’intesa sulla formazione del nuovo governo, la cui lista di ministri era già pronta. Hariri, ritenuto da ampi segmenti della comunità sunnita libanese il proprio leader, ha di conseguenza rinunciato all’incarico.
Le crisi in Libano sono ricorrenti; e sono spesso sanguinose. Il Paese dei Cedri non s’è mai messo davvero alle spalle la guerra civile e le fragilità e contraddizioni istituzionali, etniche e religiose, testimoniate da una lunga sequela di attentati e di violenze.
I sussulti libanesi preoccupano la diplomazia internazionale, che, però, produce solo moniti e appelli: per l’Onu, “non c’è un minuto da perdere”; per l’Ue, “la formazione di un nuovo governo è urgente”; per gli Usa, la rinuncia di Hariri è “deludente”; e la Francia, di cui il Libano fu colonia, convoca una nuova conferenza internazionale per il 4 agosto, nell’anniversario dell’esplosione, accidentale, ma frutto di incuria e negligenza, che l’anno scorso devastò il porto di Beirut, facendo oltre 200 morti, 6500 feriti e 330 mila sfollati, aggravando le condizioni della popolazione, prostrata dalla lunga crisi economica esacerbata dalla pandemia.
Alla vigilia del rottura tra Aoun e Hariri, gli ambasciatori di Francia e Stati Uniti erano stati a Riad, per consultazioni con la monarchia saudita, la cui influenza nel Paese si contrappone a quella dell’Iran, cui fa capo Hezbollah, il ‘partito di Dio’ sciita. I diplomatici avevano poi scritto ad Aoun, invitandolo a prendere sul serio la proposta di Hariri. Anche l’Ue, la Francia e l’Egitto premevano per una soluzione della crisi: molti analisti credevano che la pressione internazionale sarebbe stata determinante, ma non è stato così.
Giovedì, doveva essere il D-Day per il varo del nuovo governo, con 24 ministri ‘tecnici’ capaci – parole di Hariri – “di far uscire il Paese dal collasso”. Il premier incaricato è andato al Cairo, per incontrare il presidente Abdel Fattah al-Sisi; poi è salito al palazzo di Baabda per vedere Aoun: breve l’incontro, laconico l’annuncio della rinuncia, con un fatalista “Che Iddio protegga il Libano”. Aoun e Hariri si erano visti più volte nei mesi passati: dialoghi dai toni accesi, senza un punto d’intesa..
Il premier in carica per gli affari correnti, Diab, si era dimesso proprio dopo l’esplosione di agosto. A ottobre, Aoun aveva incaricato Hariri, già più volte premier e figlio di Rafiq, capo del governo assassinato nel 2005, di formare un esecutivo, di cui però ha poi ostacolato la formazione: insisteva per una “minoranza di blocco” all’interno della compagine dei ministri e voleva una distribuzione “confessionale e di parte” dei portafogli.
Il Libano in default finanziario da 18 mesi e impantanato da due anni dalla peggiore crisi finanziaria degli ultimi trent’anni, spera che il nuovo governo possa negoziare con l’Fmi gli interventi necessari per avviare il Paese verso l’uscita dalla crisi. Il cambio della valuta libanese con il dollaro ha ieri segnato un nuovo record negativo, con una perdita in due anni del 92% del valore.
Alla notizia della rinuncia di Hariri, frange impoverite della comunità musulmana sunnita libanese si sono mobilitate in varie aree del Paese: circolazione interrotta in diverse strade a Beirut, nel nord, nel sud e nella Bekaa. I media libanesi raccontano proteste, segnate da forti tensioni, nella capitale e a Sidone, a Tripoli, roccaforte del sunnismo conservatore, e in varie altre località.
Una rabbia che ha anche dinamiche ‘clientelari’. A differenza di altri leader politico-religiosi libanesi, Hariri, che ha perso il sostegno finanziario dell’Arabia Saudita, di cui è anche stato fisicamente ostaggio, per qualche tempo, non riesce più a foraggiare i suoi clienti locali, privando loro e le loro comunità di servizi e privilegi. Che restano invece garantiti, seppure ai livelli minimi, a vasti segmenti della comunità musulmana sciita collegati ai leader libanesi sciiti appoggiati dall’Iran e dalla Siria.