La figura di Donald Rumsfeld, l’ex segretario alla Difesa Usa, morto martedì 29 giugno a 88 anni, e il giudizio sul suo operato sono legati, nella mia memoria, a una foto e a una battuta. L’immagine è quella di un ancor giovane Rumsfeld che, nel 1983/’84, da inviato speciale per il Medio Oriente del presidente Reagan, stringe la mano a Saddam Hussein, il rais dell’Iraq, suggellando la ripresa delle relazioni diplomatiche tra Usa e Iraq e la cancellazione dell’Iraq dalla lista dei Paesi che appoggiano il terrorismo. Sappiamo tutti come andò a finire, vent’anni più tardi; ma la ‘real politik’, allora, suggeriva di avere buoni rapporti con l’Iraq che era il nemico giurato dell’Iran, a sua volta nemico giurato degli Stati Uniti.
La battuta è un distinguo che Rumsfeld forse creò, e di sicuro cavalcò, dopo l’11 Settembre 2001, quando l’Amministrazione Bush preparava l’invasione dell’Iraq con un pretesto che si sarebbe rivelato non solo falso, ma artatamente fabbricato, quello delle armi di distruzione di massa. Rumsfeld amava parlare di “vecchia Europa” e di “nuova Europa”: la “vecchia Europa”, detto con accenti di disprezzo, erano la Francia di Chirac e la Germania di Schroeder, che contrastavano l’invasione; la “nuova Europa”, detto con accenti d’ammirazione, erano l’Italia di Berlusconi, la Spagna di Aznar e la Gran Bretagna di Tony Blair, pronte ad assecondare, in misura diversa e, nel caso italiano, con una dose d’ipocrisia notevole, l’avventura militare degli Stati Uniti.
Era l’epoca in cui a Washington e nell’Unione il nazionalismo patriottico era così parossistico che, nel Congresso, le ‘french fries’, le patatine fritte, sparivano dai menù delle caffetterie, sostituite dalle ‘freedom fries’ – ignorando che France e freedom hanno la stessa radice -.
Su questi ricordi, s’innesta il ritratto di Rumsfeld nel film del 2018 Vice – L’uomo nell’ombra, diretto da Adam McKay: la figura centrale è il vice-presidente di Bush, Dick Cheney, ma Rumsfeld, interpretato da Steve Carell, vi ha una parte importante, che stona con l’epitaffio dettatone in morte da George W. Bush: gli Usa sono “più sicuri” grazie a lui. Né gli Usa né il Mondo, con tutto quello che è successo dopo e in conseguenza dell’attacco all’Iraq: un ventennio di guerre, la degenerazione del conflitto in Siria, la nascita dell’Isis, le ondate di attentati in Europa.
Persona affabile e dotata di un certo carisma, Rumsfeld, morto nella sua casa di Taos, New Mexico, per un mieloma multiplo, è stato l’unico segretario alla difesa ad avere servito sotto due presidenti non consecutivi. Negli Anni 70, era divenuto con Gerald Ford, a 43 anni, il più giovane capo del Pentagono della storia. Quando lasciò l’incarico nel 2006, era il più anziano ad avere mai ricoperto l’incarico.
Già presente a Washington alla fine degli Anni Sessanta, come deputato dell’Illinois, Rumsfeld, dopo tre mandati, preferì gli incarichi amministrativi a quelli elettivi: da segretario alla difesa di Ford si occupò delle strategie della Guerra Fredda e negli Anni 80, per conto di Ronald Reagan, come suo inviato in Medio Oriente, fu latore di armi e appoggio ai mujaheddin afghani che combattevano i russi in Afghanistan – le armi loro fornite servirono ai talebani per prendere il potere a Kabul e successivamente per combattere gli americani e i loro alleati occidentali -.
Tenuto un po’ da parte da Bush padre, il suo momento di maggiore impatto arrivò con il XXI Secolo quando fu per sei anni, dal 2001 al 2006, il capo del Pentagono di Bush figlio. Il suo ruolo nell’intervento in Afghanistan e nell’invasione dell’Iraq e i suoi sforzi per ammodernare e accrescere l’apparato militare degli Stati Uniti ne fecero – è il giudizio del Washington Post – “uno dei leader del Pentagono più coerenti e più controversi” di tutti i tempi. Al suo operato, sono legati l’ideazione e l’apertura del carcere di Guantanamo, gli orrori del carcere di Abu Ghraib, pratiche come l’autorizzazione al ricorso alla tortura negli interrogatori dei ‘nemici combattenti’ catturati e le ‘extraordinary renditions’.
Agendo sempre in tandem con Cheney, Rumsfeld fu considerato, durante l’Amministrazione Bush, il segretario alla Difesa più potente dai tempi di Robert McNamara e della guerra in Vietnam. E, come McNamara, si lanciò in una guerra costosa a divisiva, quella in Iraq, che a conti fatti gli distrusse la carriera e l’immagine: il cambio di regime a Baghdad, ‘facilitato’ dall’11 Settembre, era già nei programmi dei Neo Cons e della presidenza Bush.
A differenza di McNamara, che si scusò pubblicamente, Rumsfeld non ha mai fatto mea culpa e bollò, anzi, come un errore l’uscita dall’Iraq nel 2015. “La conclusione che trarranno i nostri nemici è che gli Stati Uniti non hanno la determinazione di portare a termine le missioni che richiedono sacrificio e pazienza”, disse.
Neanche nel libro di memorie del 2011 ‘Know and Unknown’, Rumsfeld, tedesco d’origine e nativo di Chicago, mostrò rimpianto per l’invasione dell’Iraq costata agli Usa circa 1000 miliardi di dollari e quasi 5000 caduti, senza contare centinaia di migliaia di vittime irachene. A suo avviso, rimuovere Saddam giustificava lo sforzo: “Liberare la regione da quel regime brutale ha creato un mondo più stabile e sicuro”, scrisse.
Verso la fine del suo mandato, quando fu chiaro che le armi di distruzione di massa in Iraq non c’erano, il suo operato attirò critiche crescenti, alimentate da battute infelici: di fronte ai saccheggi di Baghdad dopo la caduta del regime, nell’aprile 2003, Rumsfeld disse “Cose che capitano”. Lo criticò anche Bush padre, che lo considerava “un arrogante” e che attribuiva a lui e a Cheney la responsabilità di avere rovinato l’immagine del figlio. Bush jr lo licenziò nel 2006, quando ormai era diventato un peso politico per la sua Amministrazione, subito dopo la bruciante sconfitta nelle elezioni di midterm. Pochi giorni dopo, una ventina di associazioni per la difesa dei diritti umani lo denunciarono per crimini di guerra, insieme ad altri funzionari dell’Amministrazione Bush.