Se qualcuno pensa che gli inquirenti italiani girino a vuoto con quelli egiziani, nell’inchiesta sull’uccisione di Giulio Regeni, senta a che punto sono con i sauditi gli americani a quasi vent’anni dagli attacchi terroristici dell’11 Settembre 2001. Tre ex funzionari sauditi vengono interrogati, via Zoom, in un’aula di giustizia di New York, da avvocati che rappresentano le famiglie delle vittime nella speranza che le loro deposizioni, fin qui evasive e reticenti, forniscano elementi su legami, finora mai provati, tra le autorità di Riad e i dirottatori, 15 dei quali su 19 erano sauditi.
Le autorità saudite hanno sempre negato di avere avuto qualsiasi ruolo negli attacchi terroristici, che fecero tremila vittime tra New York, Washington e la Pennsylvania, dove uno degli aerei dirottati si schiantò al suolo.
Secondo una dettagliata corrispondenza da Washington di The Guardian, le famiglie delle vittime intendono provare che funzionari sauditi aiutarono almeno due dei kamikaze dell’11 Settembre, Khalid al-Mihdhar e Nawaf al-Hazmi, che prima dell’attacco vissero per un po’ in California, prima a Los Angeles e poi a San Diego; e che l’assistenza ai due fu coordinata da un diplomatico saudita in posto a Washington.
Due deposizioni sono già state raccolte, la terza lo sarà entro fine mese. Le informazioni raccolte restano per ora segrete, ma le famiglie sperano che, avvicinandosi il 20° anniversario degli attentati, l’Amministrazione Biden sia indotta a svelare elementi delle indagini in corso e, in particolare, dell’operazione Encore – nome in codice -, di cui tre presidenti – George W. Bush, Barack Obama e Donald Trump, prima di Biden – non hanno voluto lasciare trapelare nulla.
In un ampio servizio, ProPublica, un team di giornalisti ‘nonprofit’ che smaschera abusi del potere, ricorda che l’11 Settembre dello scorso anno Trump diede assicurazioni ai familiari delle vittime che gli chiedevano di pubblicare le carte di Encore, ma poi non fece nulla.
Però, l’Amministrazione Trump era legata a filo doppio alla famiglia reale saudita, e in particolare al principe ereditario Mohammad bin Salman, l’uomo dietro l’eliminazione del giornalista dissidente Jamal al-Khashoggi; mentre Biden ha preso le distanze da Mbs e potrebbe, quindi, essere più incline a divulgare elementi di Encore, sia pure parziali.
I tre funzionari sauditi interrogati sono Omar al-Bayoumi, Fahad al Thumairy e Musaed al-Jarrah. Bayoumi è un ex funzionario dell’aviazione civile, che, all’epoca dei fatti, figurava come studente, ma che per l’Fbi era un agente saudita, ben retribuito dal governo di Riad per “lavoretti fantasma”, che in realtà non faceva. Dopo gli attentati, si trasferì in Gran Bretagna, dove venne interrogato dalla polizia britannica per conto dell’Fbi. Gli Stati Uniti gli revocarono il visto per “attività quasi terroristiche”. Bayoumi sostiene di avere a malapena conosciuto Mihdhar e Hazmi, due dei quattro che portarono il volo 77 dell’American Airlines a schiantarsi contro il Pentagono, mentre i legali delle famiglie ritengono che li conoscesse bene.
Thumairy era un funzionario del consolato saudita di Los Angeles e l’imam della moschea saudita. L’uomo sostiene di non avere mai incontrato i due terroristi, ma testimoni l’avrebbero visto insieme a loro. Dopo l’11 Settembre il visto gli fu sospeso: era sospettato di legami con attività terroristiche.
L’identità di Jarrah era rimasta segreta fino all’anno scorso, quando divenne pubblica per errore. Era un funzionario di medio rango dell’ambasciata saudita a Washington: non è chiaro che cosa lo leghi a Mihdhar e ad Hazmi.
La speranza è che gli interrogatori forniscano elementi per collegare il governo saudita agli attentati dell’11 Settembre. La tesi dei familiari delle vittime, alla ricerca di responsabili che possano pagare indennizzi, oltre che della verità, è che, senza una rete di supporto in loco, gli attentatori, che non parlavano inglese e non sapevano nulla degli Usa, non avrebbero potuto muoversi a loro agio, studiare come pilotare un aereo e realizzare i loro piani. Resta da stabilire se la rete di supporto fosse sostenuto dal governo saudita e fosse al corrente dei progetti dei kamikaze.
Il New York Times ha intanto rivelato che quattro sauditi che parteciparono nel 2018 all’uccisione di Khashoggi ricevettero addestramento paramilitare negli Stati Uniti l’anno prima, sulla base d’un programma approvato dal Dipartimento di Stato. Non c’é prova che chi approvò l’addestramento sapesse che quei sauditi erano coinvolti in azioni di repressione in Arabia Saudita, ma la vicenda è un indice di quanto gli Usa fossero legati a un’autocrazia che non rispetta diritti umani, libertà d’espressione e parità di genere.