Il 24 maggio il governatore della Florida Ron DeSantis ha firmato una legge che vieta ai social networks di bandire i profili dei candidati politici dello Stato. La pena per coloro che infrangono la legge è una sanzione fino a 250 mila dollari per ogni giorno in cui viene oscurato l’account di un candidato a una carica nazionale e fino a 25 mila dollari al giorno per un candidato a una carica locale[1].
È la prima legge del genere in tutti gli Usa. Insieme all’approvazione, però, sono arrivate le polemiche. La legge è accusata di minare i principi di libertà d’impresa, quindi la libertà delle imprese private dei social networks di silenziare gli account che non rispettino le loro linee guida.
L’azione legislativa intrapresa da DeSantis, noto sostenitore di Donald Trump, è stata subito collegata alla vicenda che ha interessato proprio l’ex presidente repubblicano e il social network Twitter.
Già da maggio 2020 le notizie false pubblicate dall’allora presidente Trump avevano costretto Twitter a segnalarne alcuni tweet[2]. La situazione è precipitata dopo gli accadimenti del 6 gennaio 2021 quando Trump è stato sospeso in modo permanente da Twitter per aver istigato alla rivolta incoraggiando i suoi sostenitori a dare l’assalto a Capitol Hill. L’accusa è di aver incitato alla violenza, violando apertamente i termini della piattaforma. Dopo Twitter, anche altri social networks hanno deciso di bannare o limitare i profili di Donald Trump: Instagram, Facebook, TikTok, YouTube, Snapchat, Twitch ecc[3].
Molti politici hanno lanciato pesanti accuse verso queste piattaforme, tacciate di limitare la libertà di espressione e di nascondersi dietro il paravento del ‘politically correct’.
Anche la destra italiana si è espressa sull’argomento. Il leader della Lega, Matteo Salvini, ha infatti pubblicato un tweet con cui commentava in modo critico la vicenda e si mostrava solidale con il presidente statunitense: “Twitter è un’azienda privata, ma ha una funzione pubblica. Imbavaglia Trump? Mi domando: dove stiamo andando? Chi decide che cosa si può dire e non dire? La violenza va condannata, ma la censura non mi piace mai.”[4]
La questione è alquanto spinosa. È un campo minato attorno alla ‘libertà di espressione’, interpretata da alcuni come principio da difendere, ma da altri con la malsana tentazione del “dico ciò che voglio”, vero o falso che sia. Non si può sempre dire ciò che si vuole, e chiunque investa alte cariche nella società ha il dovere di dare un peso alle proprie dichiarazioni. Il problema allora cambia: chi decide cosa si può dire e cosa no?, cosa o chi divide verità e bugia, opinione e accusa, democrazia e anarchia?
Anche in Italia i leader politici sfruttano le potenzialità di queste piattaforme per raggiungere più persone e smuovere in qualche modo le masse. Le strategie pianificate dai social media manager sono spesso cucite sui personaggi; e linguaggio e contenuti sono studiati per il target di riferimento.
Ma può capitare anche che i politici diventino, contro il loro volere, fenomeni divertenti e satirici virali sui social networks grazie al contribuito dei meme.
I meme sono contenuti divertenti che veicolano notizie e informazioni sul web in pochissimo tempo. Spesso sono loro a guidare il sentimento degli utenti su temi d’attualità. Anche molte dinamiche politiche sono passate dall’essere argomento impegnativo al divenire il luogo eletto dove trovare stimoli per la propria creatività, senza abbandonare l’intento critico.
A novembre 2019 il duo musicale Mem & J. ha pubblicato un video in cui un discorso della presidente di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni, è stato usato come testo di una dissacrante canzone remix che ad oggi conta 11 milioni di visualizzazioni su YouTube. Nel discorso la Meloni criticava la dicitura “Genitore 1, Genitore 2” al posto del convenzionale “padre, madre”; la canzone si inseriva all’interno della più ampia sfida #iosonogiorgia – popolarissima in quel periodo sui social -, che aveva l’intento di mettere alla gogna mediatica le idee e le parole della Meloni, da molti considerate troppo conservatrici e culturalmente arretrate.
Però il risultato è stato paradossalmente l’opposto: dalla satira alla propaganda. Giorgia Meloni, in modo molto furbo, ha saputo utilizzare il meme del web a suo favore, rendendo quella canzone un inno all’ideologia del suo partito[5]. Il risultato, anche se indiretto, di questa manovra mediatica sui social è sorprendente: Fratelli d’Italia inizia a scalare le posizioni nei sondaggi, e ad oggi può vantare un sostanzioso 19%[6]. Tra l’altro, coincidenza o meno, l’autobiografia della politica, uscita il mese scorso, si intitola proprio “Io sono Giorgia”.
Ma Giorgia Meloni è solo una fra le tante ad essere oggetto di meme e video virali, che hanno visto protagonisti anche Matteo Renzi, Matteo Salvini e Silvio Berlusconi. Neanche la figura moderata dell’ex premier Giuseppe Conte è stata salvata dal web che lo aveva eletto protagonista della quarantena sui palchi dei social.
Sarà un bene per i giovanissimi di oggi – gli elettori di domani – conoscere la politica sotto la luce distorta del web?
The Minerva Post, Eleonora Carchia, Lucia Giura, Giulia Piai, Flavia Salvati, Manuela Suppa
[1] https://www.huffingtonpost.it/entry/governare-il-futuro-in-florida-vietato-esiliare-dai-social-i-candidati-politici_it_60ad315de4b09604b5284c13
[2] https://www.ilpost.it/2021/01/09/twitter-trump-sospeso/
[3] https://techcrunch.com/2021/01/09/the-deplatforming-of-a-president/?guccounter=1
[4] https://www.iltempo.it/politica/2021/01/11/news/matteo-salvini-twitter-imbavaglia-donald-trump-censura-assalto-congresso-violenza-capitol-hill-25830859/
[5] https://www.open.online/2019/11/09/giorgia-meloni-ha-trasformato-genitore-1-genitore-2-nel-suo-inno-ed-e-stata-molto-furba/
[6] https://www.repubblica.it/politica/2021/05/28/news/sondaggio_youtrend_fdi_secondo_partito_supera_pd-303169678/