Quando la tregua verrà – speriamo il più presto possibile -, non sarà un merito della diplomazia; almeno, non certo di quella degli Usa e delle ‘Super-Potenze’ multilaterali, l’Onu e l’Ue, che finora non hanno saputo cavare dal buco delle loro riunioni neppure il ragno d’una dichiarazione comune.
La tregua verrà quando Israele deciderà che le sue ‘operazioni anti-terrorismo’ possono considerarsi concluse. E gli Stati Uniti di Joe Biden, così come l’Onu e l’Ue, avranno avuto una misura palese della loro impotenza in Medio Oriente nel conflitto fra israeliani e palestinesi.
A Washington e in Europa ci s’appella alla discrezione della diplomazia, nel frastuono assordante dei razzi che cadono e delle bombe che esplodono – e nello strazio delle vittime a centinaia, civili, donne, bambini -: richieste di ‘cessate-il-fuoco’ immediato che nessuno prende in considerazione, anche perché gli europei perseguono ciascuno improbabili interessi nazionali nella Regione e Biden recita, come spesso fanno le Amministrazioni democratiche, la parte dell’asino di Buridano, incerto a metà del guado tra l’alleanza con Israele e i diritti dei palestinesi e quindi percepito come inaffidabile sia da Israele che dai palestinesi.
Appelli e pressioni non hanno finora prodotto risultati, anche perché, per motivi diversi, la tensione è funzionale, sul piano della politica interna, sia ai leader israeliani che a quelli palestinesi
E mentre Biden decide quali scelte di Trump mantenere – il trasferimento dell’ambasciata degli Usa a Gerusalemme – e quali rovesciare, con il ritorno all’opzione dei due Stati, il lascito del magnate in Medio Oriente mostra tutta la sua fragilità: non rimane traccia dell’Accordo del Secolo per la pace, da cui erano scaturiti, l’anno scorso, gli ‘accordi di Abramo’ tra Israele ed Emirati Arabi Uniti e poi con Bahrein, Oman, Sudan e Marocco. Violenze e vittime di queste ore riavvicinano ai palestinesi anche alleati di Washington nella Regione, come la Giordania.
Usa, Ue e Onu cincischiano, presi nelle loro contraddizioni interne o nei distinguo fra loro membri. Il Vaticano, per bocca del segretario di Stato Pietro Parolin, è impegnato a “prendere ogni iniziativa per arrivare al cessate il fuoco e alla ripresa del negoziato diretto”, ma non pare il mediatore ideale tra ebrei ortodossi e musulmani integralisti.
Così, ad agitarsi sulla scena come uomini di pace, ma di fatto a lavorare per il proprio tornaconto, restano l’egiziano al-Sisi e il turco Erdogan: l’uno in sordina e l’altro battendo la grancassa. Al-Sisi spera di riguadagnare punti agli occhi della comunità internazionale; Erdogan vuole acquisire più influenza nella regione. Il turco è salito sulla passerella della diplomazia muscolare: ha sentito l’iraniano Rohani, s’è rivolto ai Paesi islamici (“Inaccettabile l’immobilismo dell’Onu”), ha scritto al Papa, “Fermiamo il massacro”. L’egiziano s’è mosso con più discrezione, ma il Cairo, con Qatar e Giordania, è stato molto attivo: convogli di aiuti sono stati inviati nella Striscia di Gaza, attraverso il valico di Rafah nel Sinai; e l’apertura del confine a feriti palestinesi da curare in ospedali egiziani.
Non so voi, ma io, a leggere che Al-Sisi ed Erdogan lavorano per la pace, provo più inquietudine che speranza.