Quasi duecento giorni sono passati dalle elezioni presidenziali del 3 novembre negli Stati Uniti, quando Joe Biden ottenne oltre sette milioni di voti popolari in più di Donald Trump e s’aggiudicò 306 Grandi Elettori contro 232. Più di sei mesi dopo, la grande maggioranza dei gruppi repubblicani alla Camera e al Senato restano legati alla falsa narrazione di elezioni rubate con brogli e truffe: quella narrazione che innescò l’attacco al Campidoglio del 6 gennaio, quando facinorosi sostenitori del magnate presidente, da lui sobillati, penetrarono nel Congresso per impedire la ratifica dell’esito delle elezioni.
Il controllo di Trump sul partito e, più ancora, sui gruppi parlamentari resta assoluto: lo constatano, all’unisono, i media Usa più autorevoli. Un controllo non basato sull’adesione ideale o ideologica, ma su calcoli e sulla paura di perdere il posto: Trump, tornato ad esprimersi dopo qualche settimana di ibernazione nella sua tenuta di Mar-a-lago in Florida, vuole liberarsi dei deputati e dei senatori che non hanno assecondato le sue falsità.
Resta da misurare il seguito che Trump continua ad avere nell’opinione pubblica: i sondaggisti riferiscono che percepirlo con affidabilità è difficile, perché i ‘trumpiani’ tendono a sottrarsi ai rilevamenti e gli ‘anti-trumpiani’, i liberals, tendono invece a rispondere. Con il rischio, emerso fin da Usa 2016, di sottovalutare i primi e sovrastimare i secondi.
Questa settimana, i deputati repubblicani hanno ‘fatto – politicamente – fuori’ la loro ‘numero 3’, nella gerarchia del gruppo, Liz Cheney, un falco in materia di difesa e di sicurezza, rappresentante del Wyoming, figlia dell’ex vice-presidente degli Stati Uniti Dick Cheney, il ‘motore neo-cons’ della presidenza di George W. Bush; e l’hanno sostituita con Elise Stefanik, deputata di New York. L’elezione della Stefanik, con un voto a porte chiuse, come la rimozione della Cheney, ha segnato l’acme della campagna di epurazione dei critici di Trump, avviata una volta archiviata la procedura d’impeachment.
La colpa della Cheney? Continuare a confutare le menzogne dell’ex presidente, dopo averne votato la messa in stato d’accusa per il secondo impeachment, a fine mandato. Il merito della Stefanik? Essere ‘iper-trumpiana’ e volere che la leadership del partito esprima “un messaggio unitario”, quello dell’ex presidente, e contesti tutte le scelte dell’Amministrazione Biden, facendo così deragliare il progetto di Biden di ricreare momenti bipartisan, dopo la polarizzazione caratteristica dell’ ‘era Trump’. La Stefanik è appoggiata del leader repubblicano alla Camera Kevin McCarthy, che deve farsi perdonare un momento d’incertezza, subito dopo il 6 gennaio, quando il sostegno al magnate suo e del capogruppo al Senato Mitch McConnell parve vacillare.
La rimozione della Cheney testimonia che i repubblicani restano convinti che essere fedeli a Trump è la migliore garanzia per vincere le elezioni di midterm nel novembre 2022 e riprendere il controllo della Camera – ma soprattutto è, per i deputati in carica, la migliore garanzia di non essere battuti alle primarie da candidati ‘trumpiani’ -.
L’elezione della Stefanik ha quasi coinciso con il varo di una commissione d’inchiesta della Camera sui fatti del 6 gennaio, per i quali la magistratura prosegue indagini, arresti e processi. Decisa d’intesa tra democratici e repubblicani, la commissione sarà composta da dieci membri e dovrà analizzare “fatti e circostanze … e pure gli elementi che condizionarono” l’episodio insurrezionale del 6 gennaio: un riferimento velato, ma chiaro, al comportamento di Trump.
Nei giorni in cui i repubblicani della Camera erano in ebollizione, il presidente Biden ha ricevuto alla Casa Bianca, per la prima volta, i leader repubblicani al Congresso, McConnell e McCarthy – c’erano pure i loro omologhi democratici, Cuck Schumer e Nancy Pelosi -: obiettivo, trovare terreno d’accordo sui piani dell’Amministrazione per rilanciare dell’economia, con massicci interventi pubblici nelle infrastrutture – fisiche e virtuali , oltre che energetiche – e su occupazione e istruzione.
Finora, i repubblicani sono stati impermeabili a ogni collaborazione: McConnell e McCarthy hanno mandato, da Trump, di rendere il mandato di Biden un inferno. Uscire dall’impasse sarà “difficile”, scrivono, usando la stessa parola, “awkward”, gli analisti di New York Times e Washington Post, che riservano ironia e sarcasmo per la coppia repubblicana, ipocritamente determinata ad avallare una menzogna di cui sono consapevoli – le elezioni rubate – per difendere il posto e il potere.
Serpeggia la minaccia di una scissione: oltre cento repubblicani anti-Trump prospettano di uscire dal partito e fondarne uno nuovo. L’ipotesi potrebbe essere accelerata dalla rimozione della Cheney. Ma Washington Post e New York Times sono scettici che ciò possa accadere. Una lunga lista d’esponenti del Grand Old Party – ex governatori, ex membri del Congresso ed ex funzionari eletti – ha pubblicato una lettera manifesto, ‘A Call for American Renewal’, in cui proclama la volontà d’affrancarsi dal giogo dell’ex presidente. “Quando nella nostra repubblica democratica sorgono forze di cospirazione, divisione e dispotismo, è dovere patriottico dei cittadini agire collettivamente in difesa della libertà e della giustizia”, si legge nel preambolo della dichiarazione.
“Questo è solo un primo passo”, spiega Miles Taylor, ex funzionario per la sicurezza interna e uno dei promotori della fronda. Ma il nuovo partito appare “una minaccia vuota”, da una parte perché la base repubblicana è ora favorevole a Trump – gli scissionisti si troverebbero senza base – e dall’altra perché il sistema politico americano è basato sul bipartitismo e non ha mai consentito la nascita di una terza forza significativa e duratura. Sarah Chamberlain, che dirige un’organizzazione di uomini d’affari repubblicani, da tempo critica di Trump, dice: “Il terzo partito non ci sarà … Bisogna stare nel partito e cambiarlo, eleggendo le persone giuste”.
Al momento, non è facile trovarle e ancor meno eleggerle. Anzi, la Cheney e gli altri deputati e senatori che votarono per l’impeachment di Trump rischiano di non essere ricandidati alle elezioni di midterm del 2022: alcuni di essi hanno già annunciato la decisione di lasciare la politica, mettendosi così al riparo dall’umiliazione di una sconfitta alle primarie.