Se lo dice lui, Kim, la crisi alimentare ed umanitaria che sta per abbattersi sulla Corea del Nord dev’essere spaventosa: una carestia forse paragonabile a quella che, tra il 1994 e il ’98, fece, secondo alcune stime, 600 mila vittime, su una popolazione allora di 22 milioni di abitanti. Il dittatore nord-coreano chiede di “intraprendere un’altra, più difficile, Ardua marcia, per sollevare il popolo dalle difficoltà”.
Rivolgendosi a migliaia di iscritti al Partito dei Lavoratori, Kim Jong-un – giacca bianca in un mare di abiti scuri – ammette che il Paese sta affrontando la “peggiore situazione in assoluto”, senz’altro la peggiore da quando lui salì al potere nel dicembre 2011, dopo la morte del padre Kim Jong-il.
La crisi degli Anni Novanta fu innescata dalla perdita del sostegno sovietico dopo la dissoluzione dell’Urss, con il crollo della produzione di cibo e dell’export esacerbata da alluvioni e siccità, mentre la rigida pianificazione economica centralizzata non favorì interventi tempestivi.
Questa volta, c’entra la pandemia da Covid-19: la chiusura del Paese per preservarlo dal contagio appesantisce un’economia già devastata da decenni di pessima gestione e dalle sanzioni scaturite dalle risoluzioni dell’Onu in risposta ai programmi nucleari e ai ripetuti lanci di missioni balistici – gli ultimi il 25 marzo -.
È difficile avere un quadro di quanto davvero accade nella Corea del Nord, che la scorsa settimana aveva rinunciato alle Olimpiadi giapponesi causa pandemia. E spesso Kim esacerba le difficoltà, per rafforzare la presa sul potere. Ma le testimonianze di diplomatici russi, gli ultimi rimasti, di recente usciti dal Paese con mezzi di fortuna sono agghiaccianti; e la carestia non è ancora al suo culmine.