Altro che ‘Sleepy Joe’: lo ‘zio Joe’ è partito a razzo. E dire che quando Donald Trump lo prendeva in giro con quel nomignolo, tutti pensavamo che un po’ avesse ragione: “a decent man”, cioè – come diremmo noi – “una persona per bene”, ma un ‘posapiano’ e un ‘tiramolla’. Invece, due mesi sono bastati a Joe Biden per la ‘damnatio memoriae’ del suo predecessore e per lasciare un segno nella lotta alla pandemia e la ripresa dell’economia.
La ‘damnatio memoriae’ del presidente Trump è stata presto fatta: una raffica di decreti sui fronti più diversi, l’ambiente e il clima, l’immigrazione, i diritti civili, per cancellare i decreti del magnate che, riforma fiscale a parte, aveva governato senza il Congresso, anche quando lo aveva dalla sua, nel primo biennio. E il ritorno degli Stati Uniti nella comunità internazionale, a lavorare insieme – non solo contro – alleati e interlocutori.
In parallelo, è stato lanciato un piano vaccini di straordinaria efficacia – al ritmo attuale, l’obiettivo dei cento milioni di vaccinati nei primi cento giorni della nuova Amministrazione sarà largamente superato – ed è stato varato il piano d’aiuti all’economia per superare l’impatto della pandemia (interventi per da 1900 miliardi), divenuto legge la scorsa settimana. E sono state impostate riforme dell’accesso al voto, del lavoro, delle forze dell’ordine.
Dove finora Biden non pare fare progressi è nel tentativo di creare un clima bipartisan in Congresso tra democratici e repubblicani, superando la polarizzazione ‘trumpiana’: lo stimolo all’economia è stato approvato con un voto partitico; e sulle altre riforme i repubblicani minacciano in Senato l’ostruzionismo. Non ha certo giovato al disegno del presidente il processo d’impeachment a Trump – per di più, un buco nell’acqua -; e non gli giova la presa che il magnate mantiene sui gruppi parlamentari repubblicani.
Anche fra i democratici, c’è qualche scricchiolio. Così, sullo stimolo, Biden ha dovuto darla vinta, qua e là, a Joe Manchin, senatore della West Virginia, il più conservatore fra i democratici; e ha pure dovuto rinunciare al raddoppio del salario minimo a 15 dollari l’ora, bocciato da otto senatori democratici. Senza il sì di Manchin, ago della bilancia tra maggioranza e opposizione, i democratici sono minoranza in Senato; con lui, fanno 50 pari con i repubblicani e diventa determinante il voto del presidente del Senato, che è la vice-presidente Kamala Harris.
I repubblicani sono stati compatti contro lo stimolo e non hanno fatto sconti: Ron Johnson, senatore del Wisconsin, ha preteso la lettura integrale delle 628 pagine del progetto, costringendo i colleghi a restare in sessione fino a notte fonda. Ma anche fra di loro c’è fermento: il ‘trumpismo’ ha effetti collaterali negativi. Cinque senatori non si ricandideranno alle elezioni di midterm del 2022: sono, in ordine alfabetico, Roy Blunt, Missouri; Richard Burr, North Carolina; Rob Portman, Ohio; Patrick J. Toomey, Pennsylvania; e Richard Shelby, Alabama. Uscendo di scena, alcuni dei cinque si sottraggono a primarie scomode contro candidati ‘trumpiani’, ma rendono più fragili i loro seggi.
I consensi tengono, nonostante polemiche e battute d’arresto – A 50 giorni dall’insediamento alla Casa Bianca, il consenso per Biden resta rassicurante: secondo un sondaggio per conto dell’Ap, il tasso di approvazione del suo operato è al 60% – Trump non ci andò mai neppure vicino – e sale al 70% per la lotta contro la pandemia, mentre scende al 55% per la gestione dell’economia.
Il piano di aiuti post-pandemia da 1900 miliardi era stato trasmesso al Senato dalla Camera – dove pure c’era stato un voto secondo linee di partito rigide quasi perfettamente rispettate, democratici pro e repubblicani contro – infiocchettato come Biden e pure la sinistra del partito volevano. Ma l’aumento del salario minimo era già stato cassato a priori dal Senato, con un voto procedurale; e pure un tentativo di reintrodurlo in extremis del senatore Bernie Sanders è stato bocciato. Si tratta, però, d’una promessa elettorale: Biden s’è impegnato a cercare altre vie per la sua approvazione.
Dei 1900 miliardi, 1.400 saranno distribuiti ai cittadini americani sotto forma di assegni, 350 sono per Stati e città in crisi, 130 per le scuole, altri per assistenza alimentare, pagamento degli affitti e distribuzione del vaccino. A ricordare l’urgenza di interventi per l’economia sono i dati sul mercato del lavoro a febbraio: i posti di lavoro creati sono stati 379 mila e il tasso di disoccupazione è sceso al 6.2% – era andato in doppia cifra, nella primavera scorsa -. Ma a questo ritmo, pur sostenuto, Biden osserva che solo nell’aprile 2023 si tornerà sui livelli del febbraio 2020: “i posti in meno rispetto allo stesso periodo dello scorso anno sono oggi 9,5 milioni”.
Sono giorni caldi per la politica Usa: i democratici nel Congresso e i repubblicani negli Stati conducono battaglie incrociate sulle regole delle prossime elezioni – i democratici vogliono garantire il diritto di accesso al voto, che i repubblicani vogliono invece transennare -; la riforma della polizia coincide con l’avvio del processo al poliziotto assassino di George Floyd, la cui uccisione a Minneapolis innescò le proteste di Black Lives Matter; i sindacati, che hanno fortemente appoggiato Biden, premono per irrobustire i diritti sindacali dei lavoratori statunitensi.
E riemerge un fronte migranti, subito cavalcato da Trump. E’, infatti, boom di migranti al confine col Messico, dopo che Biden ha ‘rottamato’ le politiche restrittive del suo predecessore: in febbraio, la polizia ne ha arrestati quasi 100 mila – mai così tanti nel mese dal 2006 -; e marzo è cominciato con 4500 arresti in un solo giorno. Trump è balzato sul dato: “Il nostro confine è totalmente fuori controllo, a causa della disastrosa guida di Biden”. La portavoce della Casa Bianca Jen Psaki gli ha subito risposto: “Non accettiamo da lui lezioni sulla politica migratoria, che non è stata solo disumana ma anche inefficace negli ultimi quattro anni … Tracceremo la nostra strada e tratteremo i bambini con umanità e rispetto”. Biden continua a non nominare mai il suo predecessore, anche quando lo evoca: rispetta la ‘damnatio memoriae’ da lui decretata.