E’ battaglia sulla selezione della giuria, nel processo per l’uccisione di George Floyd, nero, 46 anni, padre di una bimba di sei anni, tenuto a terra per quasi nove minuti, con il ginocchio di un poliziotto premuto sul collo, fino a morire soffocato, il 25 maggio 2020 a Minneapolis. Accusa e difesa cercano giurati che non abbiano già deciso in cuor loro se Derek Chauvin, 45 anni, l’ormai ex agente accusato dell’omicidio di Floyd, è colpevole.
La selezione della giuria, che doveva iniziare ieri, è slittata di un giorno, in attesa che una corte d’appello si pronunci sulla natura esatta dell’accusa mossa a Chauvin, se omicidio volontario o colposo. Il processo dovrebbe durare tre settimane e la fase finale iniziare il 29 marzo.
La selezione della giuria è un momento cruciale. “Una volta che la giuria è stata scelta, il processo è stato deciso”: questo assioma è alla base di oltre sessant’anni di processi televisivi di Perry Mason e, ai giorni nostri, di Jason Bull, alias ‘dr Phil’; e fu alla base nel 1995 della clamorosa assoluzione di O.J. Simpson, palese omicida (il suo avvocato Robert Shapiro seppe costruire una giuria sensibile al dubbio della persecuzione razziale nei confronti dell’ex campione di football nero).
Nel giudizio su Chauvin, la difesa potrà bocciare fino a 15 giurati – di solito sono cinque – e l’accusa nove – di solito sono tre -, oltre a quelli che il giudice valuterà di per sé inadeguati.
Il processo di Minneapolis è anche un momento di verifica dell’impegno del presidente Joe Biden e della sua Amministrazione per la riduzione delle disuguaglianze razziali negli Stati Uniti: Floyd è, infatti, divenuto un simbolo del movimento Black Lives Matter, le cui proteste nella primavera e nell’estate 2020 segnarono la campagna presidenziale.
Alla vigilia di uno dei processi più seguiti negli Stati Uniti da molti anni a questa parte, la città appare blindata: le circostanze della morte di Floyd hanno riaperto ferite razziali profonde e dolorose nella società Usa; e la sua invocazione, ‘I can’t breathe’, non posso respirare, è divenuta slogan di manifestazioni – non sempre pacifiche – contro il razzismo e la brutalità della polizia.
Chauvin, un record di episodi di violenza in divisa, è attualmente in libertà su cauzione e comparirà in tribunale. Il giudice Peter Cahill ha deciso che l’ex poliziotto sia giudicato separatamente dai suoi tre colleghi della pattuglia omicida: prima lui, poi i suoi colleghi.
Ufficialmente, la decisione di separare i casi è stata presa per evitare il sovraffollamento dell’aula, nel pieno della pandemia. Vi sono letture contrastanti sul suo effetto: chi pensa che la separazione dei giudizi possa danneggiare l’accusa; e chi, invece, pensa sia un modo per aggravare la posizione di Chauvin e alleggerire quella dei suoi colleghi, che saranno giudicati dopo il suo verdetto.
Dal fine settimana, manifestanti stazionano davanti al tribunale: chiedono giustizia per Floyd e agitano cartelli di Black Lives Matter. Gli edifici governativi del centro città sono stati tutti recintati. Alcuni negozi sono chiusi o hanno le serrande abbassate.
I piani per la sicurezza coinvolgono l’Fbi, la polizia dello Stato del Minnesota, di polizia di St. Paul – città gemella di Minneapolis – e la Guardia nazionale del Minnesota. Il comune di Minneapolis e la contea di Hennepin hanno stanziato un milione di dollari per installare recinzioni e protezioni.
Il peso politico della vicenda Floyd, che ha anche condizionato la campagna presidenziale 2020, è pure confermato dal fatto che la controversa riforma della polizia attualmente discussa in Congresso porta il nome del nero ucciso il 25 maggio.
La legge, approvata dalla Camera, è contrastata dai repubblicani e non convince tutti i democratici, con la sinistra liberal che vorrebbe tagliere i fondi alle forze dell’ordine. Il provvedimento avrà vita difficile in Senato, unitamente alla riforma del diritto di voto tesa ad allargare la partecipazione alle urne e a indebolire alcune leggi statali restrittive.