“Historia magistra vitae”, scrisse Cicerone nel suo “de Oratore”. E di storia, in questi mesi, ne stiamo vedendo tanta. Una pandemia sanitaria che scatena una pandemia economica, che, a sua volta, dà vita a una pandemia sociale di cui, crediamo, la Didattica a Distanza è lo specchio. Strumento d’emergenza nato nei mesi più difficile della crisi Covid, si è dimostrato un vero e proprio rimedio palliativo: una soluzione che doveva rimanere temporanea ma che, nei fatti, è sempre stata la prima scelta. Dalle scuole elementari fino all’università : tutti gli studenti di ogni grado e ordine hanno provato questo metodo educativo alternativo, ma con quali risultati? E soprattutto, con quali conseguenze?
Sarebbe facile puntare il dito sulle difficoltà tecniche dei nostri istituti o sull’arretratezza di molte delle scuole e università italiane. Quello che si vuole portare all’attenzione è un altro aspetto: la questione sociale ed emotiva della Didattica a Distanza. Cosa hanno provato i nostri studenti durante questi mesi? Come hanno reagito agli ostacoli incontrati nel loro ‘cammino virtuale’? Lo abbiamo chiesto a quattro tra studenti e studentesse di diverso grado.
Enrico, 18 anni all’ultimo anno del liceo Classico. “All’inizio sembrava quasi un gioco: non dovevamo vestirci per andare a scuola e tutto sembrava più comodo, ma in realtà non lo era. Più passavano i giorni e più la voglia veniva a mancare. Molti miei compagni hanno praticamente smesso di venire a scuola, se cosi si può dire. Le molte assenze erano dovute anche a problemi tecnici, e questo complicava le cose anche a livello familiare. A seguire con la DaD non c’ero solo io, ma anche i mei due fratelli: le liti per l’utilizzo dell’unico PC della casa erano all’ordine del giorno. Con l’inizio del nuovo anno le cose sembravano essere migliorate, ma solo per poco. In questo caso a risentirne è stato il mio futuro: non ho potuto frequentare l’orientamento universitario, visto che gli atenei erano chiusi. Credo che prenderò un anno sabbatico e rimanderò la scelta dell’università, non mi sento mentalmente sereno e pronto per prendere ora una decisione del genere”.
E chi l’università l’ha già iniziata? Studenti e studentesse, come hanno reagito al cambiamento di ritmo della vita accademica con la Didattica a Distanza?
“Ha cambiato totalmente il mio modo di vedere il mondo”, racconta Giulia, iscritta al primo anno di Laurea Magistrale in Filosofia. “Prima credevo in quello che studiavo. Ora mi domando se sia davvero necessario. La prima cosa che viene a mancare è la motivazione: quello iniziato a settembre doveva essere l’anno della mia formazione più specifica. Avrei dovuto iniziare il passaggio dal mondo delle università al mondo del lavoro. Ma tutto questo è mancato. E’ mancato lo spirito di iniziativa, la voglia di fare e di conoscere. L’università è anche e soprattutto un posto fisico : quando ci viene tolta la possibilità di socializzare in posti cosi carichi di cultura, quando non possiamo recarci al nostro posto di lavoro, i dubbi sorgono spontanei : ha senso continuare in queste condizioni?”.
Stefano, 19 anni, appena iscritto a Giurisprudenza, pone un giusto quesito “Perché non fare in università quello che fanno in Parlamento? Anche noi avremmo potuto continuare ad usufruire delle strutture universitarie in tutta sicurezza. Con mascherine, gel e distanziamento sociale.”
Chiudiamo con una riflessione di Elena, studentessa fuorisede che è a pochi mesi dalla chiusura del suo percorso accademico. “Una delle cose più tristi è che molte università hanno completamente bloccato le lauree in presenza. Tanti miei colleghi si sono laureati da casa, senza avere neanche la soddisfazione di farlo nel loro ateneo. Credo che la discussione in presenza possa, anzi, debba essere fatta in tutte le università: contingentando gli ingressi in aula, mantenendo le giuste distanze e adoperando tutte i dispositivi di protezione, perché non possiamo laurearci lì dove abbiamo trascorso la maggior parte del tempo? So che è qualcosa di simbolico, ma credo che sia una delle cose di cui abbiamo bisogno in questo periodo: segnali di positività’”.
Ovviamente queste sono solo alcune voci : la tematica delle difficoltà nate dalla Didattica a Distanza sono tante e le soluzioni non sono cosi facili da trovare. L’intento era far parlare i diretti interessati, in modo da poter guardare i fatti da un’altro punto di vista.
La prospettiva degli studenti è quella di chi si trova in una ‘terra di mezzo’: troppo grandi per vivere con leggerezza le difficoltà della DaD, e troppo piccoli per poter incidere veramente nel cambiare le cose. Alcuni hanno raccontato di una difficoltà nell’immaginarsi un futuro accademico. Altri invece, vivendo questa tematica da studenti universitari, sembrano quasi rassegnati, come se la via percorsa in questo anno pandemico sia l’unica possibile.
Provare empatia per gli studenti e le studentesse italiane non vuol dire provare pena per loro. Vuol dire provare a capire le loro emozioni, i loro stai d’animo. Perché i ragazzi che oggi hanno queste difficoltà, questi timori, sono proprio coloro che dovranno ricostruire la società post-Covid, e lasciarli in balia di loro stessi non sembra essere la cosa migliore da fare.
Manuel Di Stefano