Le illusioni che la Birmania avesse davvero imboccato la strada della democrazia sono svanite all’alba di lunedì, dopo una decina d’anni di governi scelti dai cittadini con il voto, seppur ‘condivisi’ con i militari. Forse nel tentativo di dare corpo a quelle ingannevoli speranze, Aung San Suu Kyi, The Lady, Nobel per la Pace, aveva offuscato la sua immagine con atteggiamenti stridenti con il suo passato e la sua aura.
Il 1° febbraio, il giorno in cui doveva insediarsi il nuovo Parlamento eletto, i militari hanno ripreso il potere, arrestando la Suu Kyi e altri esponenti del suo partito. La motivazione ufficiale è ciò che l’esercito denunciava da settimane: presunte irregolarità su vasta scala nelle elezioni di novembre stravinte dalla Lega nazionale della democrazia (Nld), il partito di The Lady’ Il Paese è così tornato bruscamente al passato di mezzo secolo di dittature militari con rari squarci.
Tutti i poteri sono stati presi dal capo delle forze armate, il generale Min Aung Hlaing. Al termine dello stato di emergenza di un anno – è stato detto -, saranno convocate nuove elezioni: ‘promesse da militari’, si sa quando prendono il potere, non si sa mai quando lo lasceranno.
La Birmania è uno di quei Paesi che non tutti sanno situare sulla carta geografica, laggiù sul Golfo del Bengala, tra penisola indiana e Sud-Est asiatico, nonostante le dimensioni – più di due volte l’Italia – e la popolazione – solo un po’ inferiore a quella dell’Italia -. Anche il nome fa confusione: da ragazzino, mi chiedevo se la Burma dei film di guerra inglesi e americani fosse la stessa cosa della Birmania; poi, nel 1989, il Paese divenne Myanmar e la capitale Rangoon divenne Yangon; e nel 2014, le cose si complicarono ulteriormente con lo spostamento della capitale a Naypyidaw. Colonia britannica, indipendente dal 1948, ha una cronologia di regimi militari in successione l’uno all’altro, con passaggi di democrazia ‘sotto sorveglianza’.
La Birmania che rinnega un presente in chiaroscuro – ché la gestione del dramma dei Rohingya crea molti disagi – costituisce la prima crisi internazionale dell’era Biden, sullo sfondo delle ‘chiacchiere su un Mondo migliore’ fatte al Forum di Davos la scorsa settimana.
Se lo consideriamo un test per il ritorno al multilateralismo e all’attenzione ai diritti fondamentali, l’Onu, gli Usa, l’Ue, l’Occidente non lo passano bene: parole di condanna, una riunione d’urgenza del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, la richiesta di rilascio dei detenuti, minacce di taglio degli aiuti da parte degli Stati Uniti e di altri Paesi. Nulla che incida davvero, che modifichi la situazione. E dire che nel 2009 gli Usa di Barack Obama erano stati funzionali con un approccio dialettico all’evoluzione democratica del regime birmano.
Dieci anni per una transizione democratica, dieci ore per il ritorno al passato
L’esercito – racconta Alessandro Ursic, corrispondente dell’ANSA dal Sud-Est asiatico – è passato all’azione all’alba di lunedì, dopo che i timori di golpe erano andati crescendo negli ultimi giorni. Tutti i politici erano nella capitale Naypyidaw per l’inaugurazione della nuova legislatura: Suu Kyi, il presidente Win Myint e numerose altre personalità ed esponenti della società civile sono stati prelevati dai militari e detenuti “agli arresti domiciliari” in località sconosciute – un mistero non sciolto nei giorni successivi e inquietante -.
Tutto è avvenuto in poche ore, sconcertando una popolazione che tre mesi fa aveva votato di nuovo in massa per l’Nld. Le telecomunicazioni sono state interrotte per tutta la mattinata, tornando poi intermittenti nel pomeriggio; chiuse le banche e sospesi i prelievi, dopo che nelle città si erano formate code ai bancomat. Nelle strade di Yangon e di altre località presidiate dai militari, la gente non è scesa in piazza, neanche dopo un comunicato del partito della Suu Kyi, della cui autenticità molti però dubitavano, in cui si esortava la popolazione a “non accettare il colpo di Stato” e “protestare di cuore”.
Nei giorni immediatamente successivi, il controllo dei militari non s’è allentato: pattuglie armate nella capitale Naypyidaw, presidi nei dormitori dove alloggiano i parlamentari, che un esponente dell’Nld descrive come “centri di detenzione a cielo aperto”. Al telefono con un giornalista dell’Afp, e sotto il vincolo dell’anonimità per paura di ritorsioni, dice: “Non possiamo uscire … Siamo molto preoccupati”. E la preoccupazione serpeggia ovunque, ma non si traduce in azione. Del resto, che fare?
I presupposti del colpo di Stato e le reazioni internazionali
I militari hanno giustificato il loro intervento invocando l’articolo 417 della Costituzione birmana, che dà all’esercito la facoltà d’intervenire in caso di “tentativi di prendere il controllo della sovranità illegalmente e con la forza”, che mettano in pericolo la solidarietà nazionale. Nella circostanza, si tratterebbe dei presunti brogli nelle ultime elezioni: secondo i militari, oltre 10 milioni di doppi voti, un’accusa che la Commissione elettorale respinge. Che sia o meno un pretesto, va sottolineato come il golpe sia sostanzialmente ‘legale’ in forza della stessa Costituzione, scritta e imposta dai militari nel 2008.
Le contestazioni elettorali birmane sono state ‘parallele’ a quelle Usa sollevate da Donald Trump, che, senza mai fornire una prova, sosteneva che la sua sconfitta nelle presidenziali del 3 novembre fosse frutto di brogli e frodi. Ma se le polemiche statunitensi, sfociate in un episodio eversivo – l’assalto al Congresso del 6 gennaio -, attiravano l’attenzione internazionale e (anche per questo) non impedivano la transizione dei poteri a Joe Biden, quelle birmane sono rimaste nella penombra delle cronache mondiali. Fino al colpo di Stato. Che ha fatto notizia per un giorno in Occidente ed è poi stato rapidamente ‘derubricato’ a ‘fatto compiuto’. Salvo le ansie sulla sorte di ‘The Lady’.
Ci s’interroga ora sulle reali intenzioni del generale Min Aung Hlaing, uomo riservato, capo dell’esercito da dieci anni, che doveva andare in pensione a fine giugno e che non dissimulava ambizioni presidenziali. Il suo rapporto con Suu Kyi si era gradualmente deteriorato, nonostante ‘The Lady’ non abbia mai cercato lo scontro frontale con l’apparato militare e sia anzi stata fin troppo accomodante, nel giudizio di molti suoi sostenitori. Ursic racconta: “Quella che venne inizialmente considerata una transizione verso la democrazia s’è rivelata la progressiva costruzione di un sistema di potere ibrido, in cui i militari non intendono prendere ordini da un governo civile. E ora, almeno per un anno, gli ordini li daranno ufficialmente loro”.
Il colpo di Stato in Birmania è stato “fermamente” condannato dal segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, ancora prima della riunione d’emergenza del Consiglio di Sicurezza. L’Ue e diversi Paesi occidentali hanno fatto coro alle critiche diplomatiche, partendo dalla considerazione che “la volontà della popolazione, chiaramente emersa nelle ultime elezioni, va rispettata”. Gli Usa minacciano di “agire contro i responsabili”, se non restituiranno il potere; Biden parla di “attacco alla democrazia” ed evoca la possibilità di ripristinare le sanzioni rimosse quando lui era il ‘vice’ d’Obama. Sfumata la posizione della Cina, che in Birmania ha enormi interessi geopolitici: Pechino chiede di “salvaguardare la stabilità politica e sociale”.
Ma è una volta di più evidente che la governance internazionale non ha strumenti d’intervento adeguati in Birmania o in casi analoghi, ammesso che li si voglia usare.
I protagonisti: il generale e ‘The Lady’
Il generale Min Aung Hlaing è spietato nella sua determinazione: ha carisma ed ambizioni ed ha ora raggiunto l’obiettivo di guidare la Birmania, prendendo il potere dopo avere sostenuto per settimane che il pessimo risultato del partito dei militari alle elezioni politiche fosse dovuto a massicci brogli. Che lui ci creda davvero, non è sicuro.
Min Aung Hlaing, 64 anni, ha l’abitudine di operare dietro le quinte. Senza ideologie, studente non brillante all’Accademia militare dove entrò al terzo tentativo da giovane soldato, il generale assunse il comando delle forze armate dopo il ritiro dalla scena politica del dittatore Than Shwe, nel 2011.
Doveva rimanere in carica per cinque anni, ma nel 2016 si raddoppiò il mandato, che in teoria doveva terminare nel giugno di quest’anno. La sua voglia di rimanere sulla scena politica era però chiara da tempo: il generale cura con assiduità la sua immagine pubblica, ha un profilo Facebook che pubblicizza tutte le sue attività.
Con gli anni, è divenuto sempre più ingombrante per il governo guidato di fatto dalla Suu Kyi, ostacolando il processo di pace con le varie milizie armate espressione delle minoranze etniche lungo i confini. Nel 2017, fu lui a scatenare l’offensiva contro i musulmani Rohingya, costringendone oltre 700 mila all’esodo in Bangladesh dopo crimini contro l’umanità che l’Onu definì “di intento genocida” – e che la Suu Kyi tollerò e, in qualche misura, coprì -.
Da allora, Min Aung Hlaing è stato colpito da sanzioni statunitensi; e casi legali contro di lui sono ancora aperti presso la Corte di Giustizia internazionale. Ma il suo piano è sostanzialmente riuscito: la pulizia etnica fu ben accolta da una popolazione che considera i Rohingya come “corpi estranei” al tessuto sociale del Paese; Suu Kyi, costretta a difendere l’esercito sulla scena internazionale, ne uscì diminuita nella considerazione generale; e la Birmania evitò la stretta delle sanzioni conosciuta negli Anni Novanta.
Con la Birmania ‘chiusa per Covid’ e la stella di ‘The Lady’ offuscata all’estero, il generale deve avere calcolato che i rischi del colpo di Stato erano inferiori alle opportunità.
Comunque ben diversi il profilo e la ‘statura’ di Aung San Suu Kyi, che per vent’anni è stata un’icona di donna che ha sacrificato la sua vita per amore del suo Paese. Quando è finalmente andata al potere, è stata timida verso i militari e silente al limite della complicità sui loro crimini contro i Rohingya. Se era un piano per tenerseli buoni, non ha funzionato: dieci anni dopo avere ritrovato la libertà, ‘The Lady’ è di nuovo prigioniera dell’esercito.
Per Ursic. “Al momento, la sua parabola non pare destinata al lieto fine. Troppo rosee le aspettative sull’onda dell’investitura popolare, troppo duri i giudizi su quanto abbia davvero cambiato il Paese, in un sistema di potere in cui lei ha l’amore della gente, ma le armi e le risorse finanziarie le hanno in mano i suoi rivali. A 75 anni e senza essersi mai allevata un successore, è lecito chiedersi se, anche quando fosse rilasciata, Suu Kyi non sia ormai stata definitivamente ingabbiata da un esercito che intende continuare a gestire il potere”.
Non era questo il futuro che avevano in mente le centinaia di migliaia di birmani che l’ascoltarono estatici ed euforici in un comizio a Rangoon nel 1988, nel pieno di manifestazioni pro-democrazia poi represse nel sangue. Lei, dopo una vita in Gran Bretagna, era appena tornata a casa per assistere la madre malata. Sembrava il suo destino: figlia dell’eroe dell’indipendenza Aung San, assassinato quando lei aveva solo due anni, Suu Kyi era il volto perfetto per liberare la Birmania da un regime che la strozzava da un quarto di secolo.
L’impegno per la democrazia le costò 15 anni di detenzione, per la maggior parte scontati nella sua villa a Rangoon. Scelse il Paese al posto del marito, morto di cancro mentre lei era agli arresti, e anche ai due figli adolescenti, che ritirarono per lei il premio Nobel per la Pace nel 1991 e che sono emotivamente segnati da una madre celebre ma assente – specie il primogenito, con cui non ha più rapporti -.
Il contrasto tra una donna giovane e colta che si sacrifica per la democrazia e i torvi generali che tenevano il Paese in povertà tenne alta la questione birmana nella comunità internazionale.
Tra il 2010 e il 2011, cambiò tutto molto in fretta, anche per la ‘moral suasion’ degli Usa di Obama: i generali imbastirono una transizione verso la democrazia, Suu Kyi e centinaia di altri prigionieri politici furono liberati, tornò la libertà di espressione. Si parlò di ‘primavera birmana’, culminata nel trionfo elettorale di Suu Kyi nel 2015: lei a capo del governo, scene di giubilo per la “mamma” che coronava il sogno del suo popolo.
Ma condividere il potere con un esercito che mantiene enormi interessi economici, e non intende farsi controllare dal governo civile, ha offuscato la stella di Suu Kyi. In patria, dove rimane estremamente popolare, ha ridotto gli spazi di libertà di espressione; e le minoranze etniche non le danno più fiducia nel processo di pace. All’estero, la sua reputazione s’è offuscata, se non infangata, per la ostinata difesa degli orrendi crimini dell’esercito nella cacciata di 700 mila Rohingya, tanto che numerose onorificenze le sono state ritirate. Lei non è più riuscita a comunicare la sua visione: ha sempre detto che la democrazia va costruita passo dopo passo, con un lavoro di negoziato paziente dietro le quinte. Ma ora che l’esercito ha ripristinato la dittatura, i passi fatti indietro cancellano d’un tratto molti, se non tutti, i progressi degli ultimi dieci anni.