Un regalo (ai sauditi) al giorno toglie l’Iran di torno: ligio fino all’ultimo all’approccio di Trump per il Medio Oriente, il Dipartimento di Stato approva la vendita di bombe per 290 milioni di dollari all’Arabia saudita. E’ solo una parte dei flussi di armi verso le dittature del Medio Oriente acceleratosi nelle ultime settimane dell’Amministrazione Trump.
Il magnate presidente punta sull’asse con il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman, cui valuta se concedere l’immunità per delitti compiuti sul territorio statunitense, per arginare l’influenza nella Regione dell’Iran, il nemico di Israele per antonomasia. L’attenzione verso l’Arabia saudita, che ha ricambiato con massicci acquisti di armi americane, è stata una costante della presidenza Trump.
L’avallo del Dipartimento di Stato arriva malgrado fermenti nel Congresso e nell’opinione pubblica per le cattive condotte dei regimi arabi sul fronte dei diritti umani e per il pesante bilancio in termini di civili uccisi del conflitto nello Yemen, dove sauditi ed emiratini contrastano l’insurrezione sciita degli Huthi (appoggiati dall’Iran).
In un colpo solo, il Dipartimento di Stato ha anche dato via libera alla vendita di elicotteri Apache per quattro miliardi di dollari al Kuwait e di difese anti-missile per l’aereo del presidente egiziano al-Sisi (104 milioni di dollari), oltre che di strumenti di puntamento di precisione per aerei egiziani (65,6 milioni di dollari). In passato, la Casa Bianca aveva sanzionato l’Egitto per la sua repressione degli oppositori politici.
Le mosse dell’Amministrazione spingono un think tank di New York, il Centre for Foreign Policy Affairs, a denunciare il segretario di Stato Mike Pompeo, contestandogli in particolare una vendita per 65,6 milioni di dollari di droni e di aerei da guerra Egli emirati arabi uniti.
Ma l’attenzione di Washington, più che sui satrapi del Medio Oriente, è ora puntata sul senatore Josh Hawley, un repubblicano del Missouri, che offre a Trump l’occasione di mettere in dubbio, quando il Congresso si riunirà in sessione plenaria il 6 gennaio, la regolarità delle elezioni e, quindi, la vittoria di Joe Biden. Ci vorrà un voto della Camera e del Senato: i repubblicani dovranno contarsi, pro e contro il magnate che corre sul filo del golpe istituzionale.