“La realtà non è quella riportata dai vostri media. Cambiano la narrazione e raccontano fake news alla comunità internazionale. Tutto sta per finire pacificamente”, dice Abinet T., ventenne di Addis Abeba. “Non c’è alcuna guerra nel Tigrai – dice Fiseha A., giovane fotografo della capitale –, si vuole solo mantenere la pace, presto tutto finirà”.
Due dichiarazioni palesemente frutto di una propaganda di regime. Difficile credere a quanto dicono i due giovani etiopi, visto che nel Tigrai si sta consumando l’ennesimo scontro armato, prova di forza di una dittatura mascherata da Premio Nobel.
Dopo anni di guerra-non-guerra con l’Eritrea e di combattimenti etnici per l’autonomia e l’autogoverno, il primo ministro dell’Etiopia e Premio Nobel per la Pace Abiy Ahmed ha scagliato l’esercito Federale contro il Fronte popolare di liberazione del Tigrai (Tplf), regione a nord del Paese, che per decenni l’ha governata. L’offensiva militare è il risultato della ribellione del Tplf al rinvio delle elezioni nazionali, rese illegali da Ahmed a causa del Covid-19, che ha già devastato gli Stati regionali.
In Etiopia una pandemia come quella da Covid-19 non è altro che un contorno a problematiche radicate nella storia della Nazione, a riprova di una democrazia labile che storicamente contraddistingue i Paesi africani.
Il Paese del Corno d’Africa questo mese conta oltre 100.000 casi Covid-19 confermati. La seconda ondata è ufficialmente iniziata e il conflitto del Tigrai è una grande minaccia per una più rapida diffusione del virus. Decine di migliaia di civili tentano di mettersi in salvo, cercando rifugio nel vicino Sudan, ma cibo e acqua cominciano a scarseggiare. Inoltre l’Onu afferma che le forniture mediche sono bloccate ai confini. Come se non bastasse, il Paese deve combattere anche un’invasione di locuste.
“Ci si aspettava che il coronavirus impattasse bruscamente sull’Africa e la realtà ci ha sorpresi. La pandemia influisce meno nei Paesi africani rispetto all’Europa e alle Americhe. Questo potrebbe derivare dall’età media più bassa e da un sistema immunitario più forte”, dice Pietro Veronese, corrispondente di Repubblica al tempo della prima guerra in Tigrai nel ’92. “Dal punto di vista della sanità – continua Veronese – è giusto sottolineare che in Africa non vi è l’eccellenza, ma al contempo la sanità comunitaria, che da noi non esiste più, è molto forte”.
C’è dissonanza tra le notizie dei media etiopi e quelle “occidentali”. Se l’ambasciatore etiope in Eritrea, Redwan Hussein, dichiara a Capital Ethiopia che non si tratta di una “lunga guerra nel Paese ma di una breve operazione di polizia per proteggere lo Stato dai criminali tigrini”, le Nazioni Unite avvertono circa una possibile “crisi umanitaria su vasta scala”.
Il governo etiope vuole “lavare i panni sporchi in famiglia”. Ha tagliato le telecomunicazioni e l’accesso a internet nella regione del Tigrai, rendendo difficile conoscere lo stato della situazione. Il canale Rtve dichiara che la zona del conflitto è blindata. L’autorità radiotelevisiva etiope ha sospeso il permesso stampa alla Reuters e intimato a BBC e DW News di stare allerta.
La pandemia sembra una scusa per celare lotte politiche vecchie di decenni. Come al solito a farne le spese, però, è un popolo succube di continui conflitti. Un popolo che ha creduto di respirare aria di pace, per poco più di un anno. Un popolo che la pace l’ha festeggiata suonando, danzando, accogliendo stranieri: proprio come qualunque popolo libero. Non c’è virus peggiore degli orrori commessi dall’uomo. Non c’è virus più feroce della guerra.
Stringer News, Isabella Bradascio, Camillo Cantarano, Laura Martinez, Amaya Polvorosa, Edoardo Venditti, Jean-Louis Zanet